GA 22 – L’indefinizione di “secondo” (8.2.2006)

La pulsazione del cuore umanoè di circa un battito al secondo

NOTA ORIGINALE – A “minute” is a tiny part of an hour; 1/60 of a minute is a kind of minute of a minute. In old time it was called a second minute. We have shortened our speech, and call it just a “second.”

TRADUZIONE FRANCESE – Une “minute” est une petite partie d’une heure; 1/60 d’une minute est une sorte de minute d’une minute. Jadis, on l’appelait une “minute seconde”. Nous avons raccourci ce nom, et nous disons, simplement, une seconde.

TRADUZIONE ITALIANA – Un “minuto” come dice il termine, è una piccola frazione di un’ora; la sessantesima parte di un minuto è una specie di minuto del minuto. Un tempo essa veniva chiamata minuto secondo. Ora abbiamo abbreviato l’espressione e diciamo semplicemente “secondo”.

TRASCRIZIONE RONCHI – “minuto, come dice il termine, è una piccola frazione di un’ora; la sessantesima parte di un minuto è una specie di minuto del minuto. Un tempo essa veniva chiamata minuto secondo. Ora abbiamo abbreviato l’espressione e diciamo semplicemente secondo”.

TRADUZIONE GAETA – Un “minuto” è un “minuscolo pezzo” (tiny part) di un’ora; “un sessantesimo di minuto” è una sorta di “minuscolo pezzo di un minuscolo pezzo”. Anticamente perciò era detto “secondo minuscolo pezzo”. Oggi con linguaggio abbreviato lo chiamiamo semplicemente “secondo”.

Vale a dire, in altre parole: con “minuto (primo)” intendiamo una “minuta porzione” di un’ora;

con “(minuto) secondo” intendiamo una “minuta porzione della minuta porzione” precedente.

Il linguista quasi cieco e “analfabetaMario Lucidi aveva bisogno di mani che scrivessero per lui e di occhi che gli leggessero, non tanto i grandi “testi chiave” – che leggeva da solo, sia pure con estrema fatica e con “un impegno di scavo intellettivo che spesso noi che possiamo ritornare sulla pagina non mettiamo” (testimonianza De Mauro), – ma soprattutto, e per esempio, gli elaborati degli allievi o banali articoli di quotidiani. In tutti i casi voleva lette “anche le virgole e le virgolette”, costringendo spesso i malcapitati amici che lo aiutavano a minuziosi controlli e riletture. Contrariamente a quello che potrebbe sembrare non era pedanteria, né vezzo, né la semplice necessità fisiologica causata dal suo handicap  visivo, bensì una necessità “semantica” derivata dalla profonda consapevolezza del ruolo “prosodico” dell’interpunzione, da lui maturata – anzi “scoperta”, si badi – dopo lunga e sofferta riflessione.

Per noi profani di linguistica l’importanza della punteggiatura non va oltre il proverbiale, e peraltro mal conosciuto, “Per un punto Martin perse la cappa”. Per saperne un po’ di più sui “segni paragrafematici” che inseguono la “fedeltà dello scritto all’originale fonico” (maiuscole, corsivo, grassetto, parentesi, apostrofi, trattini di unione, puntini di sospensione o di reticenza, virgolette citazionali, punto fermo, punto mobile, citazioni di citazioni, citazioni in corpo e fuori corpo, ecc.), e i connessi “errori grafici”, si rileggano, per esempio, il mio articolo LU 99, la celeberrima “Tragedia di una virgola” di Rodari, “Il prontuario di punteggiatura” di Garavelli, o magari solo queste righe di Benincasa: “L'interpunzione, comunemente detta "punteggiatura", è un fenomeno grafico che si è consolidato nell'uso solo con la diffusione del libro stampato. Con la maggiore alfabetizzazione della popolazione si è poi sentita sempre più forte l'esigenza di regolare nella pagina scritta la sequenza delle parole e delle frasi, per rendere più chiara e agevole la lettura. La punteggiatura è argomento di confine tra lo scritto e il parlato. Ed è proprio su questo punto che cominciano i guai… Eh sì! perché nel corso dei secoli numerosi studiosi si sono interessati della questione, ma il risultato non è dei più convincenti. Infatti non esiste un "testo sacro" che contenga regole certe sull'uso dei segni interpuntivi né una definizione rigorosa sull'argomento” … (vedi questo eccellente sito).

È vero, “definizioni rigorose” non ne esistono e “non ne possono esistere”, stante l’aporia lucidiana a cui sono costretto a rimandare (vedi LU 49), però un “testo sacro” che spieghi gli equivoci che possono nascere dalla lettura esiste, ed è quello più volte da me citato (vedi, in particolare, l’ultimo Atomo AG 16) sull’iposema di Lucidi. È un testo specialistico, molto articolato, che non ho messo in rete perché molto lungo e soprattutto perché va letto nella sua “formattazione cartacea”, per così dire. Vi è mirabilmente descritto l’equivoco (significante/significato) dell’arbitrarietà del segno linguistico in cui sono incorsi – e continuano a incorrere, mi permetto di aggiungere! – linguisti eccelsi come Benveniste. Anche se il lettore non specialista (come chi scrive) non può penetrare a fondo nei meandri o grovigli dei labirinti linguistici, nondimeno viene messo in guardia sulle insidie degli equivoci sempre in agguato. Un esempio pratico, che spero possa chiarire un po’ meglio il concetto, è quello che, per comodità, possiamo chiamare l’“equivoco Ronchi”.

Nel 1960 uscì il testo di fisica del PSSC che, come abbiamo visto nella News precedente, fece molto scalpore e fu tradotto in parecchie lingue. Nella sezione Fonti on line del mio sito ne ho messo in rete il solo Cap. 2, Time and measurement, e ho evidenziato in rosso la brevissima nota in cui si annida l’errore di Ronchi. Per consentire gli opportuni confronti ho riportato anche il passo dei “Fondamenti dell’acustica e dell’ottica” in cui Ronchi commenta questo importantissimo Cap. 2 (sottolineando anche stavolta in rosso le frasi incriminate) e in cui il pur geniale erede di Galileo inciampa. Riproduco poi questi due passi, la traduzione “ufficiale” italiana e francese, nonché quella dello scrivente, in una tavola sinottica (in testa a questa News) allo scopo di aumentare, mi auguro, la chiarezza espositiva della mia breve analisi, forzatamente circoscritta a questo brano in cui viene, o verrebbe, “definito” il “secondo”.

La scienza ufficiale – Erice, per capirci – liquidava Ronchi o “rispondeva”, se così si può dire, alle sue accuse di indifferenza verso l’“Ottica nuova” con un’alzata di spalle: “È solo questione di parole!”. Senza volerlo e senza saperlo aveva centrato il problema, anzi il cuore di ogni problema scientifico: il linguaggio. Certo, le parole non “contano” e l’importante è che ci si capisca, però – guarda caso! – le parole per capirci servono, eccome! Solo Lucidi, dopo forse Saussure, ha capito, anzi “afferrato” magnificamente questo insidiosissimo circolo vizioso e ne ha additato, nell’iposema, la via d’uscita. Purtroppo però Ronchi non conosceva né Lucidi, né il suo iposema, né, ancor meno, “La lingua è”, il primo lavoro (del 1946) in cui Lucidi mette a fuoco la capitale differenza tra descrivere e definire. Se questi lavori avessero avuto la “circolazione” o la “risonanza che avrebbero meritato” (Belardi) è molto probabile che Ronchi, avvertito del pericolo, sarebbe stato più cauto nel maneggiare la “bomba” del PSSC (vedi GA 18) e avrebbe proficuamente introdotto anche in linguistica quella “tolleranza” da lui scoperta e teorizzata nelle lenti.

Prima di esaminare, in dettaglio, il problema della “definizione” del secondo, è necessario commentare, almeno di volo, l’intero capitolo – strano sin dal titolo “Tempo e misura”, comincia a notare Ronchi. Secondo lui il tempo e la sua misura dovrebbero essere trattati in due capitoli diversi, o quanto meno un titolo sensato doveva essere “Il tempo e la sua misura”, in analogia ed omogeneità, per esempio, a quello del capitolo successivo “Lo spazio e la sua misura”. Ronchi, purtroppo – e questo è senza dubbio un primo limite, anche prescindendo dalle “sottigliezze” lucidiane da cui abbiamo preso le mosse – non si pone problemi filologici di traduzione e accetta il testo a scatola chiusa. Anche se, in questo caso, il traduttore italiano si è fedelmente attenuto al titolo americano “Time and measurement”, a differenza di quello francese che troppo arbitrariamente ha tradotto “Le temps et sa mesure”, in molti altri punti si notano delle leggerezze interpretative, o addirittura strafalcioni come lo “scorrere” del tempo invece del completamente diverso “sweeppare” (“spazzare”, termine tecnico dell’elettronica, con tutta evidenza ignoto al traduttore). Aggiungo, per magra consolazione, che la traduzione francese, almeno ad un esame non approfondito, è ancora peggiore di quella italiana.

Un secondo limite di Ronchi, strettamente connesso alla cattiva traduzione del PSSC e alla incauta sua rinuncia alle indagini filologiche (è probabile che Ronchi non abbia mai visto l’edizione americana!), nonché allo spirito speculativo, o forse tara ereditaria, di noi italiani, è che egli cerca continuamente – e purtroppo trova, o meglio crede di trovare, di “vedere” – una questione filosofica di fondo che invece nel testo americano, squisitamente e lodevolmente pragmatico, semplicemente non c’è. Come lui stesso scrive, naturalmente con intendimento opposto, “la questione di fondo non perdona, non dà tregua… e la confusione regna sovrana!”.

L’inghippo sta nel fatto che Ronchisa”, grazie alle sue geniali scoperte di ottica (si pensi solo al “Ronchi test”), che i fenomeni psichici presiedono quelli fisici e che quello che noi vediamo non è reale, ma è un mondo apparente che ci costruiamo nella nostra psiche, in base ai “dati” che ci pervengono dall’esterno tramite i sensi. I comuni mortali invece questa verità non l’hanno ancora maturata ed ecco perché Ronchi, inconsciamente infastidito dalla mancanza delle definizioni (solo a lui) chiare su mondo reale e mondo apparente, si lamenta, peggio di una suocera, per improprietà di linguaggio non solo inevitabili, ma il più delle volte soltanto estrinseche, per cattiva traduzione. Ad esempio: i sensi definiti punto di partenza, invece che di ricezione; gli occhi o le orecchie assimilati a delle “stazioni di transito” attraverso cui ci giungono le “immagini” o i “suoni”, ragion per cui il lettore è portato erroneamente a credere che “si veda con gli occhi e si senta con le orecchie”, invece che con la mente; ecc.

Materia”, “tempo”, “spazio” e “movimento” (che è la combinazione degli ultimi due) sono concetti a tutti familiari, anche se ci riesce difficile, se non impossibile, definirli. Senza dubbio le nostre “prime” impressioni su di essi ci pervengono tramite i nostri sensi: possiamo facilmente misurare a passi o a “spanne” (con lo spessore delle dita, col palmo della mano, col braccio, ecc.) alcune distanze e tutti siamo consci del “passaggio” del tempo, ma nei casi in cui occorra “estendere” ed affinare i nostri sensi abbiamo la necessità di ricorrere ad opportuni strumenti. In particolare tutti portiamo in noi, nel battito cardiaco (vedi animazione di apertura), una “misura di tempo”, mediamente pari ad 1’’ (un secondo).

Tralascio come i traduttori rendono il misurare a passi e a spanne (to pace e to span) o altre amenità, ma stigmatizzo che la menzionata innata “metrica del tempo” cardiaca è stata distorta in “un mezzo” per misurare il tempo. Qui il discorso sarebbe estremamente lungo, complicato e soprattutto “rischioso”, perché c’è di mezzo il buccoliano “senso del tempo” (risalente a Vierordt, come sappiamo, ed evidentemente meglio noto in America che da noi), legato al ritmo, alla metrica poetica e alla musica, e non mi ci avventuro. Mi limito a riportare testualmente una frase del § 2.6 (vedi FO 31, in rosso) che ricorda vivamente il pensiero di Buccola a proposito dell’orologio di Piazza Pretoria (vedi AG 1 e AG 2) e, soprattutto, che ci servirà nel prosieguo: “Il concetto della matematica più importante per la fisica è il contare (counting). Per misurare gli intervalli di tempo i fisici semplicemente contano in secondi”.

Veniamo ora, finalmente, in dettaglio, al tema, e cioè alla definizione, anzi “indefinizione” del secondo. Esaminiamo con attenzione la prima frase dello specchietto sinottico posto all’inizio di questa News, che è presa, come si può facilmente controllare (vedi FO 29, in rosso), da una nota, anzi un asterisco, posto in calce al testo originale del PSSC. Ronchi, e sicuramente non solo lui, è convinto che in quelle righe ci sia la “definizione” di secondo o comunque servano a “dire agli studenti che cosa è un secondo” e si impania in trappole filosofiche – del tipo “è nato prima l’uovo o la gallina?”, per capirci – criticando la “definizione” di un ente (il secondo) sulla base di un altro (l’ora) non ancora definito.

In realtà questa innocua nota vuole semplicemente e banalmente spiegare l’etimologia del nome “secondo” dato all’unità di misura del tempo. In altri termini, se il Volt è in ricordo di Volta, l’Amper in onore di Ampere, ecc., qual’è il motivo per cui l’unità di tempo è denominata universalmente “secondo”? Un più oculato uso dei menzionati “segni paragrafematici”, per esempio l’abbinamento (adottato in questo testo) di virgolette e corsivo (italic), avrebbe probabilmente fatto evitare questo “equivoco Ronchi” e tutti i suoi sciagurati strascichi.

È stato senza dubbio infelice, in questa nota, introdurre un valore numerico (1/60), che automaticamente porta all’equivalenza matematica 1 ora = 3600 secondi. Qui non viene “definito” il minuto come la sessantesima parte dell’ora, ma viene “descrittivamente” detto solo che “minuto” significa qualcosa di “piccolo”, di “minuscolo” (tiny) e che il “secondo” si chiama così perché è una cosa “doppiamente” piccola. Le parole “minuto, ora, sessantesimo di minuto” in questa nota dunque non hanno (ancora) valore “definitorio”, ma solo, ripeto, “descrittivo”.

Interessante sarebbe anche discutere l’errata traduzione di “shorthand” con “abbreviazione”, ma di questo ce occuperemo altrove, se e quando ne avremo occasione.

vai a GAETA NEWS