Il senso del tempo: Pereunt et Imputantur

 

Nel 1864 nella facciata del Municipio di Palermo, in sostituzione dei due orologi sotto la statua di S. Rosalia raffigurati nelle antiche stampe di piazza Pretoria, fu collocato il moderno orologio da torre, di origine francese, tuttora in funzione. Sotto al quadrante è scolpita l’epigrafe Pereunt et imputantur, che per il Damiani è un “motto solenne che chiama ciascuno responsabile del tempo che perde”, mentre accanto vi sono due grifoni, animali mitologici, considerati nell’antichità custodi di tesori, posti nella circostanza a guardia delle ore e, quindi, del buon governo, che di esse fa un uso conveniente ed a tutto vantaggio della cosa pubblica[1].

A quei tempi gli orologi pubblici avevano una funzione pratica ben maggiore di quella odierna e mi piace immaginare che questo di piazza Pretoria fosse guardato anche dagli studenti che si recavano al Liceo Vittorio Emanuele nell’omonimo corso e dai tanti oziosi che passeggiavano ai 4 Canti, tra via Maqueda e il Cassaro. Tra i primi, non certo tra i secondi!, c’era il nostro Gabriele, o meglio Gabriello[2], che venendo da piazza Marina, dove abitava[3], appuntava ogni giorno l’attenzione a quella nuovissima macchina del tempo e all’epigrafe sottostante.

Forte della sua padronanza del latino e, chissà, di intuizioni premonitrici della sua futura ricerca fisica o anche fisiologica - e non certo, si badi, filosofica - sul tempo, il sedicenne[4] Gabriele di quel Pereunt et Imputantur aveva dato un’interpretazione controcorrente e ne discuteva animosamente con un suo compagno propenso invece per la spiegazione tradizionale. L’analisi critica del motto in oggetto [Buccola 5] probabilmente sarà stata pubblicata in qualche perduto giornalino scolastico, ma per fortuna abbiamo la seguente lettera in cui l’amico di cui sopra riassume bene i termini della disputa permettendoci così una parziale ricostruzione del punto di vista del giovane Buccola. Per saperne di più bisognerebbe indagare sull’autore della lettera (Giov. B.?) ed anche, possibilmente, su chi ha dettato l’epigrafe, la quale, per quanto attualmente mi risulta, non è attestata nel mondo classico.

 

 

                                                                                       (Palermo, circa 1870)

        Caro Gabriello,

Hai voluto che io ti scrivessi gli argomenti che mettevo avanti in mio favore nella discussione che avemmo intorno alla spiegazione delle parole pereunt et imputantur scritte a caratteri cubitali sotto l’orologio del Palazzo di Città. In fede mia non ne varrebbe la pena, sono chiacchierate che si fanno a voce e non per iscritto. Verba volant e le corbellerie in carta manent. Pure non voglio negarti il piacere, che tu cerchi, di ritorcermi così più dirittamente gli argomenti. Però sappi che io ti lancio la sfida e mi ritiro subito sia per non essere annichilito dalle tue mazzate da orbo, ove tu abbia santa ragione, o invece per rider di nascosto alle tue spalle nel vederti invano arrabbattarti contro un’ombra.

A bomba. Tu, uno dei pochi che vogliansi rendere ragione di tutto ciò che all’occhio volgare passa affatto inosservato, o trascurato, ài tradotto il pereunt et imputantur le ore passano e si computano: spiegazione che si troverebbe per la prima in un dizionario qualunque (e noi lo sappiamo) e che, come tale, potrebbe darla (riportando 10 punti) uno scolaretto da ginnasio. La spiegazione è forse eccellente, come è seria questa piccola disputa al paragone dei varii pensamenti (incredibili se non veri) di altri amici in proposito.

Però io ti faccio osservare che quelle parole latine significhino qualcosa dippiù che non dicano le corrispondenti parole italiane “le ore passano e sono contate”; e che contengano in sé, intimamente, un significato, una forza che non appare punto nelle semplici parole della pretesa traduzione. A render ciò più chiaro, a riflettere in certa guisa la lucidezza latina, io spiegai così: le ore passano e ci sono addebitate, ovvero le ore passano e pesano su di noi, credendo così azzeccar nel senso logico del detto romano, rendendo meglio il significato (metaforico, se vuoi, ma vero) della responsabilità che à l’uomo del tempo che vola, ossia delle ore che gli son poste a debito, a conto, a carico. Solo in questo largo senso accetterei la voce “sono contate”, quantunque a parer mio il si computano (che vale lo stesso) non riveli quel concetto nobile e morale, cui accenno, sibbene non altro che il sopraggiungere di nuove ore a quelle trascorse. La differenza mi sembra enorme, anzi sostanziale. Il tuosi computano o sono contateindica solamente l’ufficio dell’orologio, cioè le ore passano e l’orologio le segna, le conta. Oh il miracolo! Vorresti cogliere nel latino la meraviglia dei Romani per l’invenzione a venire di uno strumento che accusasse il tempo? Allora ti rispondo che anche prima che s’inventasse l’orologio, e prima che si trovasse qualunque altro strumento o modo per misurare il tempo le ore passavano et imputabantur allo stesso modo di oggi, in pieno secolo decimonono. Se non che gli uomini quanto più sono inciviliti, tanto più sono responsabili del loro operato, della vita scorsa, che non possono più richiamare, nemmeno vivendo eternamente.

Io per contro dall’imputantur rilevo che le ore si contano si, ma a debito dell’uomo, ...tu devi rispondere del tempo che passa, devi dar ragione del come lo ài impiegato; perciò mettilo a bene, a profitto; non perder tempo inutilmente o male; ne sei responsabile, guai a te se ne sprechi. Tutta quella roba lì non è detta a caso, né sono io che voglio vederla per forza nel motto latino: no, non è mio studio, o fantasia, è realtà. Dall’imputantur risulta la grandezza del valore del tempo. Gl’Inglesi un po' egoisticamente àn detto che il tempo è moneta. L’imputantur è una voce eminentemente plastica. I Latini con un solo vocabolo dicevano tante cose! L’idea dell’imputantur fu dal sommo poeta divinamente scolpita nel verso “che il perder tempo a chi più sa più spiace”.

Ad onta di ciò, tu mi ripeti che la tua traduzione è la giusta, perché le parole italiane ben corrispondono alle latine; e che tu (se è vero che le parole ritraggono le idee) in quel motto latino non trovi altro concetto fuor di quello prettamente espresso dalle dizioni italiane. Amico mio, avrai ragione, ma vedi corto. Tu ài anatomizzato una frase (per te) fossile, non ne conosci la funzione, non ne intuisci la virtù, forse perché fisiologicamente l’organismo di essa ti sembra amputato in parte. Tu dici: perché la frase funzioni con quelle idee ci vorrebbe un nobis*. No, il nobis si sottintende benissimo, come facilmente si comprende il soggetto “le ore” taciuto. Mi dirai che il soggetto ore è facile a capirsi perché il motto è scritto lì sotto un orologio; e io parimenti ti rispondo che il tempo passa - per chi? - nobis, per noi che ce lo dimandiamo e che abbiamo coscienza della sua successione. Quindi non so perché mai pretendere un nobis inutile; mentre certamente il tempo non può computarsi a debito degli elementi, o delle cose, o dei gatti o dei cani, ma sibbene esclusivamente a conto degli uomini. Un profondo scrittore dice che l’uomo solo, fra tutti gli esseri ond’è popolata la terra, misura le battute del suo polso e novera le ore della sua vita. Eppoi bisogna pure tener presente che quella è una frase concettosa; e tu, maestro di estetica, m’insegni che le frasi tanto più fortemente e bellamente esprimono i concetti quanto più sono laconiche e sintetiche. Ecco perché difficilmente quella benedetta sentenza può voltarsi in italiano con altrettante parole.

Parmi vederti ancora incaponito a negare il concetto morale, e la necessaria relazione con l’uomo. Anzi tu credevi che il pereunt basterebbe da solo ad esprimer tutta quella robaccia. No, il pereunt, a parer mio (che non sono un poeta), non esprime altro che la successione dei fenomeni, e per l’uomo, delle sue azioni. Il busilli però è nell’imputantur, che pretende dall’uomo che quelle azioni sieno buone. Quindi pereunt et imputantur - le ore passano e ci son poste a debito; e noi ce ne sdebitiamo impiegandole a bene, cioè a conservarci e perfezionarci (a momenti ci vedo pure la teoria dell’evoluzione darwiniana!). Il pereunt, se fosse scompagnato dall’imputantur, non direbbe nulla; l’imputantur viceversa direbbe tutto. Or bene: il concetto si completa con tutti e due i verbi; il pereunt è la parte per così dire fenomenale, l’imputantur è la parte morale. Altrimenti ragionando, non ài capito l’energia della frase riducendo tutto il significato di essa al secco fenomeno del pereunt solamente.

Gabriello carissimo, ritrattati; e così conchiuderemo che quella sentenza racchiude certamente un concetto morale, mal reso dalla tua traduzione, la quale non noterebbe altro che il meccanismo stupido di un orologio che segna l’ore. Grazie allora dell’iscrizione, quando non si sa ricavarne un’utilità pratica! “Che il tempo passa ed è misurato” lo sappiamo tutti; e non c’era bisogno di scriverlo in nessun luogo, tanto meno sotto un orologio. Il motto latino ricorda qualcosa di più; è pieno di anima e di vita, perché in mezzo ci entra l’uomo. La tua traduzione (te lo ripeto) è gretta, vuota del concetto sostanziale. Il motto latino à uno scopo altamente elevato, uno scopo favorevole, anzi inerente alla natura umana. La tua traduzione sfibrata tradisce quello scopo, e non è che un’osservazione fenomenica, che non conchiude nulla.

Quella sentenza è infine un ...Laboramus, un ...lucro appone, un ...operibus credite, che non per nulla si pongono sotto gli orologi a ricordanza degli uomini. La forma di quelle frasi latine è diversa, il concetto è quasi identico. Dico quasi perché pereunt et imputantur à un significato più ricco ancora.

Pereunt et imputantur! non è il freddo e inconscio girare dell’indice di un orologio, ma è invece una solenne e fatidica ammonizione alla gioventù; è un acerbo rimprovero che sprona al lavoro gli oziosi dei 4 cantoni.

Ed ora mi rassegno al vandalismo della tua critica. Addio.

                                                                                                Tuo  Giov. B. (?)

 

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* Il nobis sarebbe stato un pleonasmo ridondante, un vero dativo etico: a danno nostro.

 

 

Questa lunga lettera, nata senza pretese stilistiche, risulta perfetta nella forma e invero sulle prime si stenterebbe a crederla come propria di un giovane sedicenne, ma tale era il livello di Buccola e dei suoi amici. Però è dal contenuto che dobbiamo trarre qualche spunto per cercare di capire la genesi e lo sviluppo dell’idea, anzi del “senso” del tempo nel nostro Gabriele.

Intanto potrebbe essere più calzante al pensiero dell’atomista e materialista Buccola fare riferimento non alle ore, ma ai secondi, agli istanti, agli atomi temporali, per cui il motto significherebbe: gli attimi muoiono e sono contati, computati. Contro poi l’interpretazione morale dell’imputantur è probabile che il Nostro opponesse ai sostenitori di essa anche l’incongruenza e la parzialità del solo aspetto negativo, perché le ore, in qualche caso, potrebbero pur esserci imputate a premio!

Ma dalle parole che Giov. B (o chi per lui perché la firma in calce alla lettera è quasi illeggibile) attribuisce al suo contraddittore si intravede con tutta evidenza il futuro scienziato Buccola che, rifuggendo dalle sterili disquisizioni filosofiche, è già incamminato sulla strada maestra della ricerca positiva circoscritta ai fenomeni. E tra i fenomeni che hanno vivamente attratto l’attenzione e l’interesse di Buccola primeggiano quelli del pensiero, che, come ormai ben noto e assodato, non sono né extraspaziali né estemporanei[5].

Per studiare i fenomeni del pensiero e scoprirne le leggi Buccola utilizzerà i metodi in uso per i fenomeni fisici e fisiologici, perché i primi - egli ne è convinto - fanno parte dei secondi. Questi metodi, anche questo è risaputo, sono basati sul calcolo e sulla misura e Buccola non esita a spendere tutte le sue energie e la stessa propria vita a calcolare e a misurare, come provano i suoi articoli scientifici e il suo libro, zeppi di valori numerici e di calcoli.

A questo proposito sarei tentato, sperando che questa divagazione non mi venga “imputata a demerito”, di raccogliere la distinzione dei mezzojusari tra i libri “buoni”, bruciati da Buccola prima di morire, e quelli “non buoni”, lasciati ai suoi nemici per beffa (v. sezione precedente). Ebbene, da un punto di vista strettamente scientifico buoni sono i libri (di Buccola) che raccolgono i risultati numerici delle sue pazienti e rigorose misurazioni; cattivi invece quelli puramente descrittivi. Tra i primi, ovviamente, “La legge del tempo nei fenomeni del pensiero” [89] (opera che raccoglie, armonizzandoli, i suoi lavori precedenti sui tempi di reazione) e i tre o quattro saggi pubblicati successivamente; tra i secondi “La dottrina dell’eredità e i fenomeni psicologici” [83] e la “Rassegna sulla psicologia fisiologica in Italia” [58]. E credo che non sia un caso che le uniche e solite citazioni di Buccola siano tratte dai suoi libri “non buoni”, stante la refrattarietà alle formule e alle cifre, anche questa notoria, della imperante nostra cultura “alta”.

Forse per il giovane Buccola l’orologio del Palazzo di Città prefigurava proprio i cronografi e cronoscopi con cui in quegli anni trafficavano il Tacchini a Palermo, il Secchi a Roma e lo Schiff a Firenze, cosa di cui Gabriele era già probabilmente a conoscenza[6]. Poi l’irrefrenabile voglia di saperne di più l’ha spinto ad imparare il tedesco per poter accedere ai testi chiave sull’argomento, ad esempio i Grundzuge di Wundt, che poi recensirà nella sua rivista [Buccola 30].

Se l’emblema della ricerca scientifica è il microscopio, lo strumento-simbolo di Gabriele Buccola è invece il cronoscopio, ma per lumeggiare meglio la stretta simbiosi tra l’uomo e lo strumento, vorrei aggiungere che il Patrizi, estimatore del Nostro, in una pubblica conferenza chiese ai maestri e agli amici di Buccola di non lasciar profanare da mani e voci avventizie quell’apparecchio impreziosito dalla mano di Buccola[7], mentre Cesare Lombroso si riferiva proprio al cronoscopo di Hipp dicendo che Buccola aveva introdotto gli strumenti di precisione nell’analisi del pensiero [Lombroso 201]. Al momento non ho elementi per classificare Giulio Cesare Ferrari uomo di cultura “alta” o “bassa”, però ne ho apprezzato la modestia nel confessare la grande soggezione che aveva verso l’opera di Buccola, che lui non capiva, ed anche verso il cronoscopio di Hipp, che per lui, quando prese possesso del laboratorio di psicologia sperimentale del San Lazzaro, che era stato impiantato una decina di anni prima proprio dal Buccola, era un oggetto misterioso[8].

Sul cronoscopio, o cronoscopo, di Hipp in questa sede posso dire ben poco[9]. Era uno strumento d’avanguardia [La Grutta 166], abbastanza preciso, ma non immune, malgrado i continui perfezionamenti che gli venivano apportati, da più o meno indagati errori strumentali, tipici, per così dire, degli apparecchi elettromeccanici. Inoltre per essere affidabile doveva lavorare con corrente rigorosamente costante e doveva essere tarato spesso, il che richiedeva particolare perizia e pazienza.

A differenza del cronometro o del cronografo, il cronoscopio serve per misurare tempi estremamente brevi e per disvelare dimensioni temporali altrimenti non percepibili dal nostro “senso del tempo”, analogamente al microscopio che più che a misurare serve a farci entrare in un mondo fuori della portata del nostro “senso della vista”. E il paragone regge perché “dello stesso modo con cui la superficie geometrica è scomponibile in punti coesistenti, il tempo di un processo mentale accompagnato da coscienza è scomponibile in punti o momenti successivi”[10].

E concludo questi miei spunti o pungoli allo studio di Buccola con due citazioni che pur non riguardando il Nostro ne toccano da vicino, a mio avviso, le problematiche.

L’occhio, per l’estensione della sua applicabilità, per la rapidità con la quale sa adattarsi alle più disparate circostanze ha una grande superiorità nei confronti del microscopio. Considerato come apparecchio ottico, esso rivela certamente parecchie imperfezioni che di solito passano inosservate solo in conseguenza del suo intimo collegamento con la vita spirituale. Ma non appena scopi scientifici richiedano precisione nel discernere, l’occhio si rivela insufficiente. Il microscopio invece è adatto nel modo più perfetto proprio a tali scopi, ma appunto per questo risulta inutilizzabile per tutti gli altri (G. Frege, Ideografia, 1879).

Come il coltello anatomico la pazzia disgrega, notomizza lo spirito umano; ma come il microscopio ingrandisce anche, ed esagera. Certe minime parvenze morali ed intellettive, certe recondite e fugacissime inclinazioni istintive della nostra natura, che si sottraggono quando studiamo l’io in condizioni normali, nella pazzia escon fuori impetuosamente ad assumere forme e dimensioni stragrandi e mostruose. Brutte o belle che siano coteste nudità dello spirito umano, che la psicologia non seppe o non volle vedere, la pazzia le scopre senza riguardi. Parrà un paradosso: ma molte delle infinite facce dell’umana ragione le ha scoperte la pazzia (A. Livi, Del metodo sperimentale in freniatria, RSF, I, 1875, p. 1; citato in BUCCOLA [58] e in Pogliano [212] ).

 

 



[1]P. Gulotta, Il palazzo delle Aquile. Palermo 1980, p. 353. L’ammodernamento dell’orologio era stato deciso con una delibera del 20.8.1864 (sindaco Starrabba).

[2]Da un amico era affettuosamente chiamato anche Gabriellucciaccio. Vi sono testimonianze che Buccola, a differenza di quello che si sarebbe indotti a pensare, era un tipo simpatico e di compagnia. Da una lettera risulterebbe anche un legame sentimentale con una ragazza.

[3]Lo presumo dal fatto che la direzione de Gli Atomi era a piazza Marina, 43.

[4]Nell’anno scolastico 1869/70 Buccola frequentava il primo liceo. Vedi [4].

[5]G. Buccola, La legge del tempo nei fenomeni del pensiero, [89], p. 21.

[6]Vedi G. Buccola, La legge del tempo nei fenomeni del pensiero, [89] dove a p. 170 è citato P. Tacchini, Sulla equazione personale. Rivista sicula di scienze, lettere ed arti, 1869. (Su Tacchini mi pare di aver letto qualcosa in una interessante collana di P. Nastasi).

[7]M. L. Patrizi, La fisiologia del XIX secolo e la misura del pensiero, [205].

[8]G. C. Ferrari, Autobiografia, [128].

[9] Sui cronoscopi e altro si veda l’ottimo sito http://www.chss.montclair.edu/psychology/museum/mrt.html

[10]G. Buccola, La legge del tempo nei fenomeni del pensiero, [89], cap. XIII, Il senso del tempo, p. 369.