49 – Prosodia e scienza del linguaggio

Ai testi di Lucidi già da me pubblicati (Un inedito, Pagina perduta, Frammenti) o ripubblicati (Disdegno di Guido, Prosodemi) aggiungo quest’altro importantissimo saggio recuperato dal Belardi, anch’esso di difficile reperibilità (vedi M. Lucidi, Saggi linguistici, Napoli 1966).

 

Per rendersi conto dell'ampiezza del fenomeno lingua è opportuno considerare due casi limite; da una parte un'interiezione, entità carica di valore espressivo ed essenziale nell'attuarsi vivo di ogni singola lingua ma in certo modo estranea al sistema linguistico, anzi spesso al punto che nella fissazione grafica (si tratti di alfabeto tradizionale o di trascrizione fonetica) non trova un'adeguata rappresentazione (Per l’interiezione vedi A. Pagliaro, La parola e l’immagine, Napoli 1957, pp. 238 e sg., cf. anche p. 207); dall'altra una formula di alta matematica, entità per eccellenza compiutamente semantica per la quale, tuttavia, il supporto di una lingua come realtà storica attuantesi fonicamente è così secondario che nei riguardi del suo essere non è rilevante in quale lingua (potremmo dire: se v'è una lingua in cui) debba essere letta. Si tratta di casi limite, è evidente; nel primo caso non siamo ancora, nel secondo non siamo più nella lingua; però non esiste lingua senza interiezioni (e fra interiezioni e frasi si ha una costante permutabilità, un incessante compenetrarsi) e d'altronde una formula presuppone tutta una serie di postulazioni e di convenzioni, che non possono assolutamente prescindere dall'espressione linguistica. In realtà la lingua è un immenso dominio che oscilla costantemente con infinite variazioni tra questi due poli: l'espressione pura e la pura relazione, non come un compromesso risultante da essi ma come un fenomeno peculiarmente omogeneo che li comporta e da cui possono essere estratti solo nei casi limite. È ciò che fa di essa l'istrumento più idoneo all'obiettivazione del pensiero ed è quindi naturale che chi indaghi sulla validità di tale obiettivazione e sui suoi rapporti con ciò che viene obiettivato, debba, ad un certo momento, procedere ad una valutazione critica di essa.

L'esigenza di un criticismo del mezzo di obiettivazione si va, di fatto, sempre più imponendo all'indagine teoretica e a quella estetica. Però i risultati rimangono nettamente inferiori a quanto la bontà del metodo farebbe attendere. Ciò dipende dal fatto che ricerche del genere si conducono rimanendo ancorati a concezioni circa il fenomeno lingua, che la linguistica moderna ha ormai riconosciuto nettamente superate e non pertinenti. Ma se quest'ultima, nel suo travaglio più che secolare, ha potuto definitivamente chiarire l'insussistenza delle vecchie concezioni, essa è però ben lungi dall'essersene create delle nuove veramente valide - e per questo non può fornirle ad altri - su cui costruire saldamente un suo proprio metodo di scienza autonoma. Il sintomo più chiaro di questa crisi di oggetto è la questione, oggi più che mai dibattuta, se le entità linguistiche vadano considerate forma o sostanza. È evidente che, se una scienza si pone domande del genere, essa non possiede ancora i postulati idonei ad individuare univocamente il suo campo di indagine e a limitare l'esigenza teorica alla considerazione più redditizia delle entità che la riguardano.

Nata con la scoperta del metodo comparativo e, elevato questo a metodo storico (nel senso che danno alla parola i neo grammatici), impegnata poi nello sforzo colossale di un'indagine concreta intesa a dare una sistemazione vigorosa ai dati della comparazione, la linguistica si è, per lungo tempo, limitata ad accettare in sostanza i segni linguistici così come l'indagine la portava a considerarli: entità monadiche comportanti un corpo sonoro portatore di significato. Questa concezione, che potremmo chiamare contenutistica, diviene palesemente inadeguata quando, dalla sistemazione dei fatti, si vuol passare ad un'interpretazione dei risultati; perché per far ciò, siccome il segno linguistico trascende il puro fenomeno naturale unicamente in virtù della presenza di un significato, è anzitutto necessario venire in chiaro nell'individuazione di quel qualcosa cui diamo questo nome, non accontentandosi del valore indefinito e meramente intuitivo che suggerisce l'uso corrente della parola; e ciò è impossibile senza ricorrere ad altre scienze - alla psicologia o ad una sorta di sociologia o, persino, alla filosofia - cioè senza negare alla linguistica, in sede teorica, quella autonomia che la pratica della ricerca incontrovertibilmente le assegna. In quest'ordine di idee persino persino il nome di disciplina storica non appare sufficientemente giustificata; perché storia comporta l'interpretazione di eventi come estrinsecazione dell'evolversi dello spirito umano direttamente e coscientemente esplicantesi in essi; nel fenomeno lingua, invece, l'esplicazione diretta e cosciente dell'attività dell'individuo non si estrinseca in quel che la linguistica propriamente studio, cioè nell'evoluzione del significato del segno di per sé considerato (ed è ciò che rende non pertinente il raffronto con il diritto), ma nella realizzazione dell'atto linguistico che, nella sua puntualità e irripetibilità, non si può sottrarre alla considerazione di evento singolo. La difficoltà si aggrava se si passa a considerare il significante; infatti l'evoluzione fonetica - che pure si verifica in limiti di spazio e di tempo e con modalità irripetibili, come ogni evento linguistico - per la sua indipendenza, in via di norma, dal valore dei singoli segni in cui si attua, perde ogni legame con ciò che, salve restando le riserve testé avanzate, fa pur sempre della linguistica una scienza dell'uomo, e si riduce ad un fenomeno rilevabile, ma, in generale, non interpretabile; in vista poi della legittimità e dell'opportunità dell'indagine che esamini un determinato stadio linguistico in sé e per sé indipendentemente dai rapporti che legano le sue entità con quelli di stadi precedenti - in quanto tali rapporti ne svelano un aspetto ma non interpretano l'essenza in virtù della quale esso, nel suo peculiare ambito spaziale e temporale, assolve la funzione che gli compete - questa concezione semi-intuitiva del segno si rivela incapace a rispondere anche alle più elementari esigenze di una linguistica così concepita, non fornendo alcun criterio sicuro che permetta l'individuazione di entità univoche attraverso l'infinita varietà delle loro realizzazioni. È appunto tale esigenza che porta il De Saussure, allorché introduce la sincronia, a considerare la definizione data precedentemente del segno, come l'unione “d’un signifié, concepte” e “d’un signifiant, image acoustique”, semplicemente orientativa e provvisoria, “ …une opération qui peut dans une ceratine mesure être exacte et donner une idée de la réalité”, con la quale però “ …en aucun cas je n’exprime le fait linguistique dans son essence et dans son ampleur” (Cours de linguistique générale, II ed. p. 162), e ad assumere come fattore individuativo l'unico elemento squisitamente linguistico peculiare del segno, la sistematicità in uno stato sincronico.

Nasce così la nuova concezione, che potremo chiamare formale del segno come valore puro: significato e significante intesi entrambi come punti definiti solo relazionalmente, entità puramente differenziali e negative con la sola caratteristica positiva (discutibile positività) dell'unione di un determinato significante con un determinato significato. Ma questa interpretazione del segno linguistico si presenta inadeguata, inaccettabile come base di individuazione e di trattazione delle vere entità della lingua, perché esclude, in sede teorica, la possibilità di prendere in considerazione un fenomeno essenziale che la realtà dei fatti pone all'indagine: l'evolversi del segno attraverso il tempo. In effetti, se degli enti tra loro relazionabili sono dati di per sé, la relazione che tra essi intercorre è passibile di perdurare e di divenire, in quanto l'essere di volta in volta quello che essa è rappresenta soltanto una modalità del suo esistere, il quale ha la sua base di continuità e di mutabilità nella continuità degli enti e nei fenomeni che in essi intervengono. Ma, se data è la relazione - sicché l'essere ciò in base a cui è stata definita è l'unico suo attributo di esistenza - e gli enti vengono individuati solo come suoi termini, essa resta inchiodata ad una astratta fissità di essere, fuori di ogni divenire nel tempo.

Così se, poniamo, sono dati nel tempo A B C tra loro relazionabili, è pensabile che in un dato momento sussistano ad esempio le relazioni:

A > B  (A maggiore di B)

A = C

e in un momento successivo altre:

A < B (A minore di B)

A = C

ed è legittimo considerare, mettere in rapporto e valutare, nel loro perdurare e nel loro divenire tali relazioni. Ma se dato è soltanto:

A > B

A = C

e A, come B e C, è individuato e definito unicamente in virtù delle relazioni che lo legano a B e C, è palesemente inammissibile che possa sussistere:

A < B

A = C

o qualunque altra relazione diversa dalla data, perché altrimenti A cesserebbe, per definizione, di essere A (e se i rilievi successivi si verificano, ciò dimostra che ad A ed agli altri enti compete un'essenza ed un'individuazione diversa da quelle date). Al De Saussure, conscio della problematica in oggetto (Cours, pp. 16, 19, 20, 23-25, 36, 112, 114, 149-152, 293) è ben presente la portata di questa difficoltà, anche se condizioni per così dire ambientali contribuiscano, in certa misura, ad attenuarla, in quanto i fonemi - lasciati, nonostante i chiari accenni alla possibilità di una considerazione opposizionale, sostanzialmente allo stadio contenutistico e quindi passibile di evoluzione - legittimano ancora un'indagine diacronica nella quale rientrino la fonetica evolutiva e, sia pure con qualche accomodamento (Ad esempio l'omissione, nel dimostrare la natura sincronica dell'analogia, di un elemento pregiudizievole, decisivo come la dimenticanza da parte del parlante della forma già esistente, del quale si riconosce poi appieno l'importanza parlando di etimologia popolare), l'analogia e l'agglutinazione, cioè i grandi protagonisti della linguistica storica del tempo. Infatti questa sparuta diacronia deve rimanere radicalmente distinta dalla sincronia, l'unica peculiare sede di tutto ciò che è significativo e grammaticale, e una vera grammatica storica non ha, in linea teorica, diritto di esistere (Cours, pp. 185, 195, 209); benché, “c’est là, qu’est la véritable difficulté”, la fonetica non riesca a spiegare il fatto evolutivo nella sua interezza e, una volta eliminato il fattore fonetico, rimanga “un résidu qui semble justifier l’idée ‘d’une historie de la grammaire’ ” (pp. 194-196).

L'intransigenza saussuriana circa l'inconciliabilità radicale tra sincronia e diacronia non è dovuta ad un certo amore per il paradosso o ad un eccesso di rigore, egli non fa che cercare di giustificare una delle conseguenze delle sue premesse, la meno pregiudizievole, alla quale si affianca, se non altro, l'esigenza di reagire alla dannosa confusione facilmente instaurabile tra punto di vista sincronico e punto di vista diacronico; che anzi, quanto all'altra, l'illegittimità di una grammatica storica (quella incondizionatamente inammissibile alla quale a lui stesso vien fatto continuamente di derogare) egli si limita ad archiviarla senza giustificazione, trincerandosi dietro ragioni didattiche che non convincono neanche gli editori (Cours, p. 197); i quali peraltro, avanzano semplicemente l'ipotesi di una possibilità di giustificazione attraverso la linguistica della "parole", del tutto ignari che non un sistema coerente rappresentavano quelle lezioni, al quale, per l'esposizione orale ed in fasi successive mancasse, in sostanza, solo una formulazione controllata, omogenea e definitiva (Cours, pp. 8-10), ma una teoria minata da un'aporia radicale, che il maestro, nella coscienza di tale aporia, andava formulando, potremmo dire, attraverso ripensamenti ad alta voce alla ricerca di una chiarificazione, in abbozzi provvisori e con lacune, come la mancanza di una trattazione sistematica della semantica, non del tutto fortuite, nei quali certi accomodamenti e certe inesattezze non erano soltanto estrinseci (Vedi particolarmente a proposito del problema centrale pp. 40-43 sulla linguistica interna e la linguistica esterna; pp. 110-112 sulla mutabilità e immutabilità del segno; pp. 115-116 su sincronia e diacronia; pp. 158-159 sul valore; p. 250 sulla continuità delle unità diacroniche).

Non a caso, pur rendendosi esatto conto e dell'importanza decisiva della linguistica sincronica che egli andava instaurando e della “insuffisance des principe set des méthodes qui caractérisaient la linguistique” (Cours, p. 7), egli nè pubblicò mai nulla, nè lasciò checchessia che autorizzasse in qualche modo a farlo, e certo l'adozione del suggerimento di "…donner tels quels certains morceaux particuliérment originaux (Cours, p. 9) avrebbe interpretato assai più fedelmente questo fatto. Un libro come il Cours, pervaso da cima a fondo dall'esigenza di individuare e definire “ …l’objet à la fois intégrale t concret de la linguistique” (p. 23), “ …la langue envisajée en elle-même” (p. 317), e caratterizzato da una genesi che favorisce dinanzi ad ogni incoerenza la presunzione dell'intervento di fattori esterni, ha forse contribuito non poco all'inesatta valutazione dei limiti inerenti ad impostazioni come quella saussuriana. Lo strutturalismo con l'adozione e l'approfondimento - in virtù della coerente estensione anche ai fonemi del criterio opposizionale e attraverso una più avvertita valorizzazione dei rapporti paradigmatici e soprattutto sintagmatici - di un concetto fecondo e squisitamente linguistico, quale il carattere di sistematicità del segno, ha colto frutti incontrovertibilmente cospicui per una più chiara comprensione del meccanismo relazionale di una struttura linguistica. Ma, eliminato l'elemento sul quale il De Saussure fondava la sua superstite diacronia, lo stesso ordine dei fatti, per cui egli non può convalidare la legittimità di una grammatica storica, inchioda la prassi strutturalistica ad una indagine di pura relazionalità esclusivamente sincronica e puntuale costretta, per la sua non aderenza alla natura del fenomeno, ad affrontare problemi (unicità o non unicità di soluzioni) e ad adottare metodi e criteri di valutazione (arbitrarietà di scelte, semplicità) peculiarmente non linguistici, e assillata, già nel rilievo delle entità, da questioni di forma e sostanza non confacenti ad una scienza particolare o dall'insopprimibilità del fattore semantico nell'applicazione del criterio distribuzionale. Superare i limiti di questo astratto sincronismo è possibile solo a patto di non attribuire alla sistematicità il ruolo di elemento individuatore ma considerarla un carattere, sia pur peculiare, di enti dati di per sè; il che comporta il riaffacciarsi di tutte le difficoltà inerenti alla concezione contenutistica, aggravate dal fatto che nel suo ambito l'intrinsecità del fattore strutturale non trova giustificazione che su un piano strettamente fisiologico e psicologico.

E in realtà le ricerche in tal senso - assai poco numerose, per vero, e rivolte quasi esclusivamente al campo fonico, dove una certa fenomenicità naturale della cosiddetta sostanza dà validità intuitiva al rilievo empirico - messi da parte i criteri ed i problemi dello strutturalismo sincronico in nome di una non meglio giustificata esigenza di maggiore concretezza propria all'indagine diacronica, tornano ad assumere le entità e le loro varianti come dati puramente sostanziali; e se la considerazione della necessità interna delle strutture rende conto assai meglio delle modalità di sviluppo dei fenomeni, e singoli e nel loro insieme (non per altro delle cause), non è però altrettanto chiaro su quali basi questa necessità interna possa trovare un'interpretazione autonoma in sede linguistica. L'inconciliabilità tra linguistica tradizionale e strutturalismo innovatore, entrambi palesemente inadeguati, puntualizza la crisi d'oggetto che travaglia la linguistica, il vero problema che il De Saussure sapeva di lasciare in eredità alla disciplina; il segno linguistico (e corrispondentemente il fonema) non presenta nella sostanza, che in quanto segno gli compete, i requisiti idonei a farne l'entità chiaramente individuata su cui una scienza specifica indaghi in piena autonomia e, d'altro canto, la concezione puramente formale che ne consenta l'unica caratteristica peculiare, la relazionabilità paradigmatica e sintagmatica, denuncia, con la sua incongruenza con la realtà del fenomeno, l'assoluta insopprimibilità di quella sostanza. Questa refrattarietà ad una individuazione pertinente - come del resto la gran parte delle difficoltà teoriche che anche al di fuori della linguistica caratterizzano l'assunzione, da qualunque punto di vista si proceda, del fenomeno lingua ad oggetto specifico d'indagine (perché, si adottino o no i termini peculiari: segno, significante, significato, la posizione di partenza rimane in sostanza la stessa) - trova la sua ragion d'essere nel fatto che il cosiddetto segno linguistico non è un segno.

Alcune delle osservazioni che seguono su segni e iposemi ho già avuto occasione di esporre altrove [vedi sopra pp. 8-10, 38-42 e 65-76]. Ho creduto opportuno ripeterle perché si tratta di concetti indispensabili per l'ulteriore sviluppo dell'indagine e, d'altro canto, assolutamente estranei all'attuale patrimonio teorico della linguistica - nè mi risulta che le precedenti esposizioni abbiano avuto una eco rilevabile. Il solo Martinet, a quanto io sappia, ha fatto per suo conto (La double articulation linguistique, in Recherches structurales = Travaux du Cercle linguistique de Copenhague, V, 1949, pp. 30-37), alcune osservazioni singolarmente collimanti con le mie vedute sull'analizzabilità del segno e dell'iposema, le quali si limitano però a riconoscere la specialità della pertinenza (in presumibile rapporto con necessità “economiche”) di tale caratteristica al fenomeno lingua, senza rilevare le conseguenze effettivamente decisive che essa comporta circa la natura e la peculiare sostanzialità delle entità linguistiche, e che ne implicano nei riguardi della glossematica conclusioni di ben altra portata che la rettifica di una definizione. Praticamente, allo stesso stadio di semplice carattere specifico a presumibile sfondo economico, il concetto della double articulation torna fugacemente nel Traité de phonologie diacronique (Economie des changements phonétiques, Berna 1955, pp. 157-158) dove per altro s'insiste maggiormente sull'azione preservatrice nei riguardi della convenzionalità incontestabile nelle normali entità linguistiche e assai più limitata negli elementi marginali (vedi anche pp. 28 sgg.) e prosodici nei quali, appunto, è assente la doppia articolazione.

È indubbio che la concezione delle parole come segni o simboli, entità di per sè significative, legata ad una consuetudine riflessiva le cui origini si perdono nei primordi stessi del pensiero speculativo, ci si presenta così spontanea e immediata da poter dar credito ad una sua legittimità intuitivamente postulabile. Eppure essa è radicalmente fallace (e destinata quindi a sfociare in un'astrazione incompetente del fenomeno concreto e valida solo nel quadro di una riflessione sterile, avulsa dalla realtà); ed è agevole sincerarsene prendendo lo spunto da un'asserzione familiare alla linguistica. Allo stesso instauratore della lingua come sistema di segni vien fatto di osservare: “Dans la règle, nous ne parlons pas par signes isolés, mais par groupes de signes, par masses organisées qui sont elles-mêmes des signes » (Cours, p. 177). Segno cioè la frase, o meglio il prodotto complessivo del singolo atto linguistico, e segni (linguistici) ad un tempo le parole; vale a dire gli elementi dal cui insieme il tutto è costituito. In ciò il De Saussure non è solo; su questo punto il consenso è generale, anzi normalmente, il riconoscimento che la qualifica di segno oltreché alla parola, la quale è appunto in virtù di essa un'entità linguistica, compete anche alla frase, viene accompagnato dall'esplicita ammissione di una certa più compiuta aderenza di quest'ultima alle caratteristiche che tale qualifica comporta. Certo se si considera una parola come grazie (l'espressione olofrastica) tutto ciò appare legittimo; essa può benissimo essere messa sullo stesso piano di una frase, ed è anzi l'equivalente di un certo tipo e numero di frasi, come ad esempio: Vi ringrazio della vostra gentilezza e simili, e la differenza è veramente solo d'ordine quantitativo. Ma, è risaputo, grazie come altre espressioni del genere (prego, no, si, ciao, ohibò, ecc.) può essere qualificato “parola” solo dal punto di vista puramente esteriore dell'unicità d'accento e dell'inscindibilità della sequenza fonetica, trattandosi in effetti di uno di quegli elementi marginali che appunto, per la loro natura autonoma di espressioni olofrastiche, la linguistica considera esponenti di una classe eccezionale e in sé conchiusa, sostanzialmente estranei al sistema linguistico.

[a questo punto il testo si interrompe]

INDIETRO