3.2 - Frammenti inediti di Lucidi[1]

 

 

Esercizi sulle frasi

 

Prima frase "Quanto è bello guardare la luna"

 

Questa frase si può dire in 4 modi: 3 casi obbietti e 1 caso subbietto (?)

1 - Quanto è bello guardare LA LUNA;

In questo caso è importante la cosa, serve per annunciare la cosa guardata.

2 – Quanto è bello GUARDARE la luna;

In questo caso “da” viene sostenuto (guarda…a…re, più cantato), riguarda perciò io, il soggetto. Questo caso interessa noi.

3 – QUANTO È BELLO guardare la luna;

4 – QUANTO È BELLO GUARDARE LA LUNA;

In questo caso in alto e tutti subbietti.

 

2a frase "Quanto è bello baciare la bocca" (variante del primo esercizio)

Conclusione: I verbi che non stanno soli (guardare la luna, baciare la bocca, non baciare) hanno due pezzi (due casi):

1 - nel parlare banale (io / prelude la cosa \ la cosa);

2 – la cosa è dentro, perciò viene un “verbone”.

 

3a frase "Mi piacerebbe parlare a quel signore, Mario (o a quel prete)"

Per "quel prete" e "quel signore" nessuna indicazione; in più tener presente che non so se si può (parlare) e come si fa.

Tutta la frase è autonoma da Mario. In questa frase si deve applicare il 2° caso, in cui "quel signore" è dentro il parlare e conta l'azione del parlare[2].

 

4a frase "Mi piacerebbe parlare a quel prete che cammina senza pregare, Mario"

(io non so se si può e come si può). Neanche qui "quel" è indicativo (Mario).

Qui al verbo parlare deve essere applicato il secondo caso e non il primo.

"senza pregare" non serve per indicarlo (il prete) in mezzo agli altri.

"che cammina senza pregare" indica la circostanza che rende interessante parlare a lui. E quindi non solo esprime la caratteristica per cui mi interessa, ma esprime e coincide anche (non "indica") qual'è la persona a cui voglio parlare.

"qual'è" esprime e non indica, quindi diviene la parte più importante, ma rimane sempre dentro.

Qui il motivo per cui "camminano insieme" non indica, sta nel fatto che la ragione per cui mi interessa parlare è la presenza di una caratteristica che lo distingue da tutti gli altri e che io denuncio. Sicché l'interlocutore si trova automaticamente, a causa della mia frase non indicativa, ad avere l'indicazione (il motivo è interno).

(mi piacerebbe: "ebbe" in su). In “prete” c'è il salto di voce.

"Senza pregare" è dentro “cammina”. L'eccezionalità di questa frase è che gli altri pregano e questo no.

Allora la graduatoria è questa:

1 - cammina senza pregare

2 - piacerebbe

3 - parlare

4 - a quel prete

 

5a frase "Mi piacerebbe parlare a quel signore che canta così bene"

Per la frase “a quel signore che canta tanto bene” io esprimo soltanto perché mi interessa un certo signore e l’interlocutore, non sapendo se il suo giudizio è concorde col mio, mi può domandare se è un certo signore, es: "è quello lì?"

 La graduatoria è:  

1 - mi piacerebbe

2 - che canta così bene (è la proprietà, non è "sta cantando così bene")

3 - parlare

4 - quel signore

Nel parlare la sillaba più importante o sale o scende in tutte e due le sillabe finali.

"canta (è importante) così bene (è dentro canta)"

 

frase 5 bis: (Mario è come un altro 1°)

 

6a frase "Mi piacerebbe parlare a quei due che cantano così bene, Mario"

(in questa frase l'eccezionalità è secondaria)

"Mi piacerebbe parlare a quel prete che cammina senza pregare, Mario"

(neanche in questa frase quel è indicativo)

"che cammina senza pregare" non solo esprime la caratteristica per cui mi interessa, ma esprime e coincide anche (non indica) qual’è la persona a cui voglio parlare.

qual’è” esprime e non indica: diviene la parte più importante, ma rimane dentro.

Qui il motivo per cui "camminano insieme" non indica sta nel fatto che la ragione per cui mi interessa parlare è la presenza di una caratteristica che lo  distingue da tutti gli altri e che io denuncio. Sicché l'interlocutore si trova automaticamente, a causa della mia frase non indicativa, ad avere l'indicazione (il motivo è interno).

 mi piacerebbe” (ebbe in )

"A quei due che cantano tanto bene" (detto come lo diciamo noi) la non importanza di quei può dipendere dal fatto che solo quelli hanno fatto un duetto.

In  questo caso "cantano tanto bene" rimane ancora soltanto il motivo per cui mi  interessano, e quei non ha necessità di essere indicativo, perché l'interlocutore sa già  da sé di chi si parla, ed io non ho bisogno di indicarli.

 

***

 

Dato un verbo qualunque all'infinito (parlare, guardare) la seconda sillaba (da) se è sostenuta indica che ciò che segue o potrebbe seguire è piccolo, è dentro. Quindi predomina la sensazione del soggetto.

Se la seconda sillaba non è sostenuta predomina ciò che segue e in genere la direzione dell'azione. La seconda sillaba ci fa conoscere i rapporti tra il soggetto e l'oggetto.

Se la prima sillaba è sostenuta predomina l'attività, l'intenzione del soggetto. Se non è sostenuta predomina il fatto visto dal di fuori.

La prima sillaba ci fa conoscere i rapporti tra l'azione e il fatto.

Quando nel verbo si ha a disposizione una sillaba sola, le due caratteristiche si seguono sull'unica vocale.

"Parlerei a quel signore"    parler \ ei (a quel signore);  ei  parler (a quel signore)

Per noi si richiede che "par" sia sostenuto perché è la nostra intenzione e attività; "le" è sostenuto perché “quel signore” è dentro a parler; "ei" è sostenuto di per sé per l'intenzione del soggetto, e sostenuto forte perché vi sta dentro:

parler a quel signore[3]

 

 

La terzina dantesca

L'andamento prosodico della decima sillaba del 2° verso della terzina è complesso, composto cioè di due fasi subbiettive che ritorneranno nell'ordine nel 1° e nel 3° verso della terzina successiva (i quali sono in rima con esso).

Nel verso 1° del ciclo (il 1° di ogni dozzina, che poi diventa il 13° e così via...) l'andamento è questo:

 

 

Sillabe intense ed estense

Estense sono le sillabe in cui le consonanti sono morbide. Intense le altre.

In ogni verso ci sono 5 sillabe marcate e 5 non marcate.

Le sillabe marcate di un verso centrale (né al principio, né alla fine) sono o tutte intense o tutte estense. Le altre sono l'opposto.

 

Verso teso, verso disteso

Se le sillabe marcate sono intense il verso è teso, altrimenti disteso (estense).

 

Sillabe marcate

(Gli accenti, naturalmente, cadono solo sulle marcate). Le sillabe marcate sono:  la 6a e la 10a sempre; la 5a e la 9a mai (per il resto vedere appresso lo specchietto).

Nel verso abbiamo queste 5 coppie di sillabe:

 

   1) la coppia di base                  (1a e 2a)

   2) la coppia premediana          (3a e 4a)

   3) la coppia mediana               (5a e 6a)

   4) la coppia postmediana        (7a e 8a)

   5) la coppia finale                   (9a e 10a)

            la pausa                                (11a)

 

Ogni coppia ha una sillaba marcata e una no. Nella mediana sempre la 6a, nella finale sempre la 10a.

Riferendoci alle sillabe marcate ┌┐ si possono ottenere queste 8 combinazioni:

 

coppia di base

coppia premediana

coppia mediana

coppia postmediana

coppia finale

1a

2a

3a

4a

5a

6a

7a

8a

9a

10a

┌┐

 

┌┐

 

 

┌┐

┌┐

 

 

┌┐

┌┐

 

┌┐

 

 

┌┐

 

┌┐

 

┌┐

 

┌┐

 

┌┐

 

┌┐

┌┐

 

 

┌┐

 

┌┐

 

┌┐

 

┌┐

 

┌┐

 

┌┐

┌┐

 

 

┌┐

 

┌┐

┌┐

 

 

┌┐

┌┐

 

 

┌┐

 

┌┐

 

┌┐

 

┌┐

 

┌┐

┌┐

 

 

┌┐

┌┐

 

 

┌┐

 

┌┐

┌┐

 

 

┌┐

 

┌┐

 

┌┐

 

Esempio: verso teso (combinazione n. 7)

scīami Elēttra a lē tue stānze rīedi[4]

La prima coppia è il contrario perché il verso è il primo dell’opera.

 

Caratteristiche della terzina dantesca.

I versi dispari sono ascendenti.

Nell’Inferno, se il numero del verso e il numero del canto sono o tutti e due pari o tutti e due dispari il verso è disteso. È teso se sono uno pari e uno dispari.

Numero del verso e del canto pari, verso disteso

Numero del verso e del canto dispari, verso teso

Il 2° verso di ogni terzina ha le sillabe di base marcate al contrario.

Esempio – Inf. V, 98 (essendo pari in canto dispari il verso è teso).

Quindi nella base “sulla” dovremo avere la sillaba marcata sul intensa e l’altra estensa, invece succede che sul è estensa e la è intensa, e poi tutto regolarmente.

In Dante ogni dozzina di versi rappresenta un ciclo di rime che torna nella nuova dozzina

 

Versi ascendenti (i toni):   Lasciami     Elettra   a  le  tue  stanze    riedi

                                                 1              4              6              8        10

                                                                                                cesura

                                         base                        mediana

                                                                apotona

 

Versi discendenti:                sulla    marina    dove    il    Po     discende[5]

                                                 1              4              6              8        10

                                                                apotona

                                                 base                        mediana

                                                                                                cesura

 

L’apotona (controtonica, la frenata che ha il senso contrario) è sempre indietro.

Quando è marcata la 3a e non la 4a si ha sempre la cesura normale, ossia accento sulla 6a  e la 3a (è sempre obbietto)

         ^

1       4      6      8

 

Questo verso ha la cesura normale sulla 6°, allora 4 e 8 sono subbietti.

 

 ^              ^

1        4      6     8

 

In questo verso 4 e 8 sono tutti e due obbietti, la 4a  apotona e la 6a subbietto.

 

Frammento sulla poesia

"Arrivare" si riferisce alla conclusione del movimento, "giungere" al risultato; "finalmente siamo arrivati" esprime la soddisfazione di chi ha compiuto il tragitto, "finalmente siamo giunti" quella di chi si trova dove il compiere il tragitto comportava si trovasse. La terzina, prosodicamente integrata, perde l'anonima staticità che le compete nella dizione consueta animandosi in un succedersi di concetti tra loro nettamente distinti ed articolati, ed è appunto il degradare dei tre "va" (figura dora?) a sensibilizzare anche in un ritmo formale il progressivo spezzarsi della visuale dal di qua al di la della fatale porta.

Un'idea più precisa sulla effettiva natura fenomenica del sentore disatteso e non autonomo che in concomitanza con lo spezzamento di livelli caratterizza l'ipostasi sarà naturalmente possibile farsi solo attraverso l'analisi strumentale; ciò vale del resto per tutti i prosodemi che siamo andati illustrando (si pensi ad esempio particolarmente alla dinamovergenza).

Al proposito potrebbe nascere l'obiezione che, ad ottenere risultati meno provvisori, in questa ricerca iniziale anziché seguire il metodo che abbiamo prescelto, basato semplicemente sull'esegesi di testi inevitabilmente complessi, sarebbe forse stato più opportuno limitarsi allo studio di singoli fenomeni debitamente circoscritti affidando i risultati alla costante controllabilità di una qualche analisi strumentale.

Ma è da tener presente quanto segue: come materiale per una simile indagine non potrebbe essere assunto né l'atto di parola colto nel suo spontaneo attuarsi né il sema astratto; il primo perché anche nelle sue manifestazioni più semplici costituisce, come si è visto, una entità estremamente complessa ed etereogenea nella quale sarà caso mai la già acquisita esatta conoscenza dei fattori prosodici a permettere di sceverare i singoli elementi (prosodia sistematica, prosodia di realizzazione, mutamenti di retta, obliterazioni prosodiche condizionate dalla cornice o da un particolare atteggiamento pratico del parlante o eventualmente anche dalla sua inerzia e così via); quanto al sema astratto esso è per definizione una non compiuta manifestazione linguistica e l'individuazione del suo peculiare andamento costituisce un problema a sé che potrà di nuovo essere accentato (?) solo una volta che sia nota la consistenza dei relativi fenomeni nella effettiva realtà.

Sarebbe pertanto necessario postulare piccoli semi documentari opportunamente semplici e univocamente individuati e quindi operare su di essi; procedimento che potrà e dovrà essere seguito solo quando sussisteranno alcune condizioni che allo stadio presente sono ben lungi dal verificarsi, e cioè, non solo perché i risultati divengano apprezzabili, una dizione riflessa effettivamente responsabile, ma anche ai fini stessi dell'individuazione, una qualche consapevolezza dell'esistenza delle singole variabili (già nelle pagine precedenti si sarà avuta più di una occasione di osservare che la sensibilità dell'orecchio ai vari prosodemi è in proporzione diretta con tale consapevolezza). 

L'obiettivo quindi che lo stato delle cose impone ad una indagine iniziale come la nostra consiste nel creare queste condizioni indispensabili per ogni ulteriore progresso.

Perché poi nonostante le difficoltà inerenti ad una simile scelta il materiale si attinga al documento poetico nella sua più alta espressione è già ora abbastanza chiaro: il ritmo nella sua qualità di fissatore prosodico con i suoi condizionamenti offre alla relativa integrazione una guida sicura e in certo modo estrinseca. Il meccanismo dell'ipostasi in ogni modo ci suggerisce una considerazione combinatoria della direzione e della vergenza anche nomenclatoriamente molto opportuna; siccome l'evergenza e l'invergenza polarizzano l'andamento direzionale nei confronti rispettivamente del suo punto di partenza e del suo punto di arrivo e i due andamenti comportano una opposta relazione intervallare tra tali punti (discendente, alto, basso, ascendente, basso, alto) è chiaro che la contrapposizione direzionale e quella di verso concomitando provocano una polarizzazione relativamente equitonale; si ha cioè polo basso per l'evergente ascendente e per l'invergente discendente (...)

Tornando ai nostri versi ..ervi discendente ed evergente come subietto secondario - il primo subietto è rappresentato dalla prima ..ase di "glorie" - si situa in anastasi e gli schemi prosodici dei due iposemi sono nell'ordine figura pira (?). Una esatta realizzazione di essi renderà pressoché automatica l'esecuzione dell'intera frase; in vista tuttavia dell'accidentata prosodia dell'espressione "in un tempio accolte" non riuscirà inutile - anche perché nell'atteggiare "accolte" a subietto e "tempio" ad obietto (l'atteggiamento inverso corrisponderebbe alla participiale "accoltele in un tempio") potrebbe facilmente accadere di realizzare quest'ultimo come primo obietto. (tener presente che a essa compete in pratica la realizzazione che verrebbe spontaneo conferirle in un contesto come: "che in un tempio accolte le serbi le itale glorie").

La complementarietà e la natura participiale del complesso comporta ipostasi e mutamento di piano e precisamente, avendosi l’origine "tempio" uguale figura brera (?), "accolte" uguale figura para, anastasi è passaggio al piano intenso, passaggio che rimane presente solo nel timbro (noi lo segneremo sovrapponendo una rica (?)) perché la solita inversione sintagmatica riporta l'essenza; anche l'anastasi rimane tonalmente annullata dal passaggio di livello dovuto alla inversione regressiva che investe l'intero complesso (la posizione canonica sarebbe dopo "glorie") e orientato verso il basso perché l'obietto - come sappiamo, vedi pag. 000, in questi casi funge esso da regolatore - cioè "tempio" è ascendente;

"accolte" poi si realizza a livello più basso che tempio per l'altra inversione (progressiva questa volta, ma l'iposema è discendente) che si verifica riguardo a quest'ultima; abbiamo quindi, sempre nell'ordine del contesto, "figura di"[6].

 

Poesia di Trilussa L’incrocio.

 

Una cavalla disse a un somarello:

no, cottè nun ce sto, vattene via

io vojo un maskjo della razza mia,

nobbile e arzillo, fumantino e bello.

Pur'io - rispose er Ciuccio - vojo bene
a una certa Somara montagnola
ch'ammalappena dice una parola
me sento bolle er sangue ne le vene.
Ma qui se tratta che a l'allevatore,
che bontà sua cià fatto trovà assieme,
je serveno li muli e nun je preme
se li famo per forza o per amore.
De dietro a l'ideale e ar sentimento
lo sai che c'è? l'industria mulattiera.
Dunque, damoje sotto e bona sera,
chiudemo un occhio e famolo contento.
 

 

 

Nastro con l’analisi delle paroleQuei due che insieme vanno”.

 

Diverse volte Lucidi invita la Ascioni a pensare bene il significato degli spezzoni poetici che lui le faceva ossessivamente ripetere. A un certo punto dice: “Riuscire a pensare bene il significato è l’unica via per discriminare i fattori prosodici”. In un altro punto la Ascioni dice: “Qua non ci penso bene!

Dalla pronuncia a volte traspare una considerazione personale su quello che si recita. Ad un certo punto la Ascioni con gran meraviglia esclama: “Chi l’avrebbe detto che riesco a pensare queste cose nelle parole!”.

 

 



[1] Tratti da nastri magnetici o da un quadernetto di appunti ritrovato il 22.11.85 da Virginia Ascioni.

[2] ATTENZIONE: non mangiarsi mai la fine (in questo caso Mario). Eseguire poi la frase con i subbietti.

[3] Questi esercizi per delimitare i livelli delle frasi ricordano le serie di parentesi (tonde, quadre, graffe).

[4] Ricordo che io adotto il simbolo  ˘  per l’estensa e il simbolo  ¯  per l’intensa.

[5] Versione diretta: La terra di dŏvĕ fui nativa / siede sulla marina dōvē discende / (per aver pace) il Pŏ co’ suoi seguaci.

[6] Anche questo frammento è molto guasto in più punti, anche per inevitabili errori miei e della Ascioni. La responsabilità di questa pubblicazione è quindi enorme, tuttavia credo che alla perdita irreversibile sia preferibile un recupero di fortuna.