AG 14 – Telegrafia e Lingua

Dal pendolo di Morse all’effetto Lucidi

 

Descrizione: Pendolo di Morse

 

Il “pendello” (pendolo + martello) di Morse (vedi cap. 8)

 

 

Disponibile anche in formato PDF

 

 

                                      Questo Atomo

                           Ringraziamenti

Telegrafia

1.                Telegrafi e semafori

2.                I semafori acustici

3.                Il pendolo di Morse

4.                I “tipi” di Morse

5.                Le spaced letters

6.                Il “punto” invertito

7.                Morse primario e secondario

8.                Il pendello di Morse

9.                Pendolarità e pressività

Lingua

10.             La lingua è… Morse

11.             Il “turno” di Lucidi

12.             Estense e intense

13.             La “conta” di Lucidi

14.             L’effetto Lucidi

 

 

 

1 – Telegrafi e semafori

 

Non voglio, né pretendo scrivere sulla storia dei telegrafi e/o dei semafori, anche perché sull’argomento esiste abbondantissima ed eccellente bibliografia[1]. Il mio obiettivo è invece puntualizzare le differenze tra i due sistemi, spesso mal conosciuti e confusi tra di loro, allo scopo non tanto di gettar luce sulla telegrafia o la sua storia, ma di trarre da telegrafi e semafori degli aiuti per affrontar meglio i problemi di carattere linguistico sollevati in questo saggio, specie nella seconda parte.

Oggi i telegrammi, credo, non si mandano neanche più dagli uffici postali (si dettano al telefono o si usano fax, email, ecc.) e il telegrafo elettrico è un oggetto da museo. A mala pena ricordiamo che è stato inventato da Morse e che poi Marconi, con la radiotelegrafia, lo ha affrancato da fili, pali e cavi sottomarini.

Ugualmente lacunosa, se non distorta, è la nostra conoscenza dei semafori. Tutti pensiamo a quelli luminosi, diciamo “statici”, agli incroci delle strade, dimenticando per esempio i loro corrispettivi, e di più antica data, nelle ferrovie[2], nei porti e lungo le coste[3]. Ma anche gli indicatori di direzione lampeggianti delle auto[4], le braccia dei vigili urbani che dirigono il traffico[5], le palette del capostazione o della polizia, ecc. sono semafori a tutti gli effetti, in quanto rappresentano o “portano segnali”[6] inequivocabili, sia pur limitati e in numero ristretto e preordinato[7].

Nell’800 invece queste stesse parole – telegrafi e semafori – avevano significati diversi, e più vaghi, di quelli attuali. Di telegrafia, nello stretto senso etimologico di scrittura a distanza[8], si cominciò anzi a parlare solo dal 1832 (Rapporto, cit.).

“Eccettuata la Francia, dove non si è mai persa di vista la distinzione tra telegrafo e semaforo, i due sistemi si sono fusi e confusi in quelli di semafori telegrafici o di telegrafi semaforici. Alcuni storici, dopo lo sviluppo dei telegrafi elettrici, hanno chiamato semafori i sistemi più esattamente definibili ottici o visivi” (Wilson, cit).

La linea o catena di semafori[9] più importante era quella che dall’Ammiragliato a Londra portava (ordini o notizie) alle navi alla fonda a Portsmouth. Le varie stazioni o “poste” avevano nomi come Semaphore House o Telegraph Hill, ma, anche poiché esistevano parecchi tracciati alternativi o sperimentali – per aggirare i frequentissimi problemi di scarsa visibilità per le avverse condizioni meteorologiche[10] –, di queste non solo è rimasta confusa la memoria locale, ma molti autori ammucchiano insieme linee telegrafiche e linee semaforiche, e le stesse carte geografiche ufficiali e le enciclopedie le registrano con madornali strafalcioni[11].

Di Holmes sono pure molto interessanti alcune considerazioni sul verbo to telegraph: “È possibile che tale verbo possa essere usato in congiunzione con un sistema semaforico allo stesso modo di come si usa per descrivere il lavoro di un tic tac man alle corse dei cavalli. Potrebbero essere descritti altri casi, come quando si dice che un pugile “gliel’ha telegrafato”, quando il suo avversario ha avuto il tempo di vedere ed evitare il colpo in arrivo – o quando un calciatore “lo ha telegrafato”, quando il suo passo è intercettato dalla squadra avversaria (dal lato opposto). In Marina segnali a bandiera potrebbero “essere telegrafati” mediante la prima alzata di bandiera che significa “sto telegrafando”….”.

Ci basti ricordare che la trasmissione “di intelligenza”, come si diceva, poteva farsi in due modi: con lo spelling puro e semplice dei messaggi o per mezzo di cifre o codici[12]. Nella famosa notizia della vittoria di Nelson a Trafalgar, “telegrafata” in cifre, il numero 253, per esempio, significava “Inghilterra”.

 

 

 

2 – I semafori acustici

 

Il telegrafo, nel senso generico in cui è usualmente ma erroneamente applicato a tutti i modi di comunicazione a distanza, è un’invenzione molto antica e quindi in questo senso lato non può essere rivendicato da nessun inventore moderno. Ma nel senso stretto della parola, come “mezzo per scrivere a distanza”, il telegrafo è un’invenzione recente, non anteriore al 1832. È stato allora proposto di usare il termine telegrafo nel suo stretto senso etimologico, distinguendolo così da tutti gli altri modi di comunicare a distanza coi quali finora è stato confuso…

Inizia così il Rapporto[13] fatto da Morse sulla sezione Telegrafia dell’Esposizione Universale di Parigi del 1867. Questo lavoro è prezioso perché ci dà un quadro esauriente - anche se non obiettivo perché, come intuibile, l’autore e il suo telegrafo sono parti in causa - dello sviluppo e del consolidamento del telegrafo e del codice Morse dopo circa trenta anni di telegrafia[14]. I telegrafi e i semafori, spesso, come già detto, confusi tra di loro, per chiarezza vi sono trattati in due distinti capitoli.

Morse comincia col sottolineare che il semaforo non è un “telegrafo”, per il semplice fatto che non scrive né imprime segnali a distanza. Tra essi c’è la stessa differenza che appropriatamente Wheatstone fa tra cronografo e cronoscopio[15]: il primo lascia una traccia grafica (sinusoidale) permanente e quindi è uno strumento registratore,  il secondo invece indica solo il tempo trascorso e quindi è uno strumento indicatore.

Fino al 1832 tutti gli strumenti di comunicazione anche se venivano genericamente detti telegrafi erano, senza eccezione, dei semafori perchè veicolavano segnali fugaci o evanescenti. Alcuni erano a luci colorate e lampeggianti (tipo bengala), ma c’erano anche quelli elettrici di Henry, Schweigger, Ronalds, ecc. descritti in tutti i libri di storia della telegrafia. Quelli più diffusi erano comunque i cosiddetti telegrafi ad ago (Higthon, Wheatstone, ecc.) che, grazie alla manovra di alcuni manubri o maniglie, davano un’indicazione visiva mediante l’oscillazione, velocissima, di uno o più aghi che venivano letti con gli occhi, in tempo reale.

Poiché questi “semafori ottici” richiedevano addetti molto specializzati[16] ben presto furono trasformati in “semafori acustici” semplicemente sostituendo i due finecorsa (stop) che limitavano l’escursione dell’ago con due campanelle di tono differente[17]. La Fig. 1 e la Fig. 2 sono, rispettivamente, un esempio di semaforo ottico e acustico.

 

Descrizione: ago        Descrizione: Tin sounder

Fig. 1                                  Fig. 2

 

Anche questi semafori acustici, antesignani dell’apparato tipico della telegrafia che si imporrà in America solo molti anni dopo, verso il 1850 – il sounder (v. cap. 7) –, da Morse erano disprezzati per la loro fugacità o semaforicità. La sua idea “fissa”, infatti, era di trasformare tali semafori in veri telegrafi che lasciassero una traccia scritta ossia una registrazione dei segni ricevuti e/o trasmessi. Addirittura nelle infinite vertenze brevettuali che lo videro agguerrito protagonista e vincitore, Morse rivendicò sempre di aver creato “una nuova arte” che permetteva di avere a distanza segni, scrittura o stampa (marking, writing or printing).

Molti di questi semafori acustici, usati specialmente in Inghilterra, utilizzarono lo stesso alfabeto Morse con la convenzione che l’oscillazione e il tocco a destra era un punto, mentre l’oscillazione e il tocco a sinistra era una linea. Essi avevano il pregio (reale?) di permettere la lettura ad udito – quindi i dispacci potevano essere trascritti da un solo impiegato i cui occhi non erano più impegnati a seguire le oscillazioni dell’indice – e quello (presunto) di essere più veloci del Morse, perché la linea aveva la stessa durata del punto[18]. Inoltre avevano il sicuro difetto di non potersi usare nei grandi uffici, perché l’interferenza dei toni dei vari apparati posti nello stesso ambiente creava confusione e risultava pregiudizievole alla lettura dei dispacci.

 

 

 

3 – Il pendolo di Morse

 

Ovviamente Morse, nel Rapporto, si sofferma molto sugli sviluppi del suo telegrafo, a cominciare dal celebre viaggio del 1832 dall’Europa in America sulla nave Sully, però maggiori e più utili particolari, che utilizzeremo in questo capitolo, si trovano in un suo Pamphlet, scritto sempre a Parigi nel 1867 e inserito (in estratto) in calce alla sua più celebre biografia[19].

L’idea-guida di usare l’elettricità per lasciare dei segni – o anche disegni, visto che era un pittore – su una strisciolina di carta scorrevole Morse riuscì a realizzarla solo nel 1835, quando costruì il “trasmettitore” e il “ricevitore” del suo primo telegrafo[20]:

 

Descrizione: cavalletto         Descrizione: cavalletto2

                               Fig. 3                                                 Fig. 3 bis

 

Morse pensava ad una tele-grafia, o meglio ad una “tele-tipografiaautomatica, non manuale: il dispaccio, una volta composto con tipi o caratteri del tutto simili a quelli tipografici, si inviava girando semplicemente una manovella – a velocità costante e relativamente elevata – o usando un qualsiasi motore ad orologeria, come quello che faceva avanzare la banda di carta o “zona” nel ricevitore (vedi Fig. 3 e Fig. 3 bis).

Dal punto di vista elettrico il dispaccio, in questa idea iniziale di Morse, si badi molto bene, non era costituito dai punti e linee Morse (segnali corti e lunghi), ma soltanto da “punti”, cioè semplici impulsi di corrente, contigui e tutti uguali, della durata[21] strettamente necessaria ad azionare il ricevitore.

Il cuore di questo apparato era costituito: dall’elettromagnete[22], fissato nella traversa centrale del telaio (v. figure); dall’armatura, fissata, si badi ancora di più, non sulla classica leva che poi equipaggerà tutti i telegrafi Morse, ma alla traversina centrale di una specie di pendolo triangolare a forma di A (A-shaped pendulum); e infine dalla forza di richiamo costituita dalla gravità. Tale pendolo, lungo circa 50 cm, sospeso nel punto f (impropriamente fulcro), aveva una escursione alla base di circa 2 cm, sufficiente a lasciare sulla sottostante striscia di carta in movimento una traccia ben visibile delle sue oscillazioni. Per minimizzare gli attriti questa traccia veniva lasciata da una matita infilata lascamente (loosely) nell’apposito astuccio verticale che si nota alla base del triangolo-pendolo (vedi Fig. 3)[23].

Nella Fig. 4, tratta dal Pamphlet citato, questa traccia è data dalla spezzata rs, il cui tratto r corrisponde alla posizione di riposo e il tratto s all’elettromagnete attratto[24].

 

Descrizione: Prime 1 

Fig. 4

 

Durante il funzionamento questa spezzata assumeva un andamento che nei trattati, e nei lavori di Morse, è dato da perfette onde triangolari o a dente di sega (più o meno rettificate, cioè più o meno simmetriche rispetto alla mezzeria data dalla verticale del pendolo), mentre il Karrass (Geschichte der telegraphie, circa 1900) le riporta, un po’ diverse (Fig. 5), più cuspidate e con leggera curvatura a pinna di pescecane[25]:

 

Descrizione: Karrass3 

Fig. 5

 

 

 

4 – I “tipi” di Morse

 

Il Morse è un codice o un alfabeto? Come gli storici sanno bene quello che è noto come “codice Morse” è opera del geniale suo collaboratore Alfred Vail e dovrebbe a rigore chiamarsi “alfabeto[26] Vail”. Il vero “codice Morse”, invece, è semplicemente il dizionario numerico usato, fino al 1835 o 1837, nei primi “telegrammi Morse”:

 

Descrizione: Shaffner                Descrizione: Karrass4

                                   Fig. 6                                                         Fig. 7

 

Su questi suoi primitivi e grezzi esperimenti di telegrafia fatti col telegrafo a pendolo descritto nel capitolo precedente e usando i dizionari tradizionali, tipo Chappe per intenderci[27] e per semplificare[28], Morse ha sempre abilmente glissato, per difendere i suoi brevetti dalle rivendicazioni, a volte legittime, degli altri inventori[29]. Negli scritti citati, per esempio, non c’è il fac-simile originale delle Fig. 6 e Fig. 7 (tratte rispettivamente da Shaffner e Karrass), col risultato che restano ambiguità, non tanto sulle date[30], quanto soprattutto sull’uso degli spazi, sull’inversione del numero zero (punta del triangolo invertita da \/ a /\), sulle cuspidità e sull’introduzione della linea.

È certo però che l’idea di Morse era trasmettere numeri, non caratteri alfabetici. All’inizio egli pensava di trasmettere un impulso o punto (dot) per ogni unità:

 

.    ..        ….    …..    ……    …….    ……..    ………    ……….

     1    2     3      4        5         6            7           8             9              10

 

Dopo pochi minuti di riflessione” (sic) si rese però conto che sequenze superiori a  5 punti non erano maneggiabili[31] e pensò di introdurre un’altra variabile, lo spazio, per discriminare le prime cinque cifre dalle altre cinque. Costruì allora, anzi fuse, i seguenti 10 +1 tipi delle cifre numeriche, seguendo criteri rigorosamente matematici:

 

numero

tipo o carattere

numero denti

spazi tra i denti

spazio dopo i denti

parti totali

1

(o finale)

Descrizione: 1

1

0

3

4

2

Descrizione: Prime tot

2

1

3

6

3

Descrizione: 3

3

2

3

8

4

Descrizione: 4

4

3

3

10

5

Descrizione: 5

5

4

3

12

6

Descrizione: 6

1

0

5

6

7

Descrizione: 7

2

1

5

8

8

Descrizione: 8

3

2

5

10

9

Descrizione: 9

4

3

5

12

0

Descrizione: 0

5

4

5

14

spazio

Descrizione: 00

0

0

6

6

 

 

 

 

5 – Le spaced letters

 

La Fig. 8 dà una visione d’insieme dei primi tipi numerici di Morse e un esempio di “imprinting”, cioè la traccia, lasciata sulla zona, del dispaccio numerico 456-320-4:

 

Descrizione: prime4

Fig. 8

 

Si noti che ci sono solo punti e spazi (no linee), e per l’esattezza questi tipi di spazi:

1.                    spazi propri o naturali, tra i punti o denti (cogs);

2.                    spazi di 3 unità, dopo i numeri 4, 5, 3, 2;

3.                    spazi di 5 unità, dopo i numeri 6, 0;

4.                    spazi separatori, di 6 unità, aggiunti a quelli del 6 e dello 0.

Nel Pamphlet citato Morse fornisce anche un altro esempio che mostra come viene assemblato sul regolo-compositoio il dispaccio dato dalla stringa numerica 77-8-92 e, soprattutto, la funzione dell’ultimo tipo, a prima vista sbagliato o superfluo:

 

Descrizione: prime5

Fig. 9

 

Ricordando la tabella precedente la decodifica è abbastanza immediata: i primi denti sono 2 e poiché lo spazio successivo è 5 parti si tratta di un 7; gli altri 2 denti sono seguiti da uno spazio di 11 parti (5 + 6), quindi c’è una separazione, la cifra è 7 e il numero 77; con gli stessi criteri si “leggono” il secondo numero (8) e l’ultimo (92).

L’ultima cifra però è ambigua: trattandosi di 2 denti potrebbe essere un 2 o un 7, ma la presenza del “tipo finale” dopo uno spazio di 3 parti fa optare per il 2. Il tipo finale, ricapitolando, non va conteggiato e serve solo come punto di repere per la misura (“metrica”, letteralmente!) dell’ultima cifra[32].

Per far sedimentare i concetti fin qui acquisiti e prima di introdurre la linea Morse è didatticamente utile accennare alle spaced letters del Morse americano[33]. Tali lettere “spaziate” sono sei – C, O, R, Y, Z, & – ed hanno la particolarità di essere costituite solo da punti e da spazi (senza linee), cioè dai due parametri Morse incontrati finora.

Quando il codice numerico presentato nel capitolo precedente si evolse nel “codice” alfabetico (di Vail) venne spontaneo, per semplicità ed economia di spazio e tempo, sfruttare il parametro spazio non solo dopo i denti, ma anche intramezzato tra essi. Furono allora “coniati” i seguenti tipi per così dire …sdentati:

 

lettera

spaziata

tipo o carattere

numero denti

spazi tra i denti

spazio dopo i denti

parti totali

O

Descrizione: 3mod

2

3

3

8

R

Descrizione: 4mod1

3

4

3

10

C

Descrizione: 4mod2

3

4

3

10

&

Descrizione: 5mod1

4

5

3

12

Z

Descrizione: 5mod2

4

5

3

12

Y

Descrizione: 5mod3

4

5

3

12

 

Morse si pentì presto e quasi rinnegò le spaced letters, perché creavano ambiguità, ma dopo l’introduzione dell’alfabeto nell’uso pratico gli fu impossibile cambiarle[34].

 

 

 

6 – Il “punto” invertito

 

L’istituzione della linea, l’elemento veramente originale che ha fatto la differenza e la fortuna del sistema Morse, è avvolta nel mistero[35]. Morse, intenzionalmente o no, in entrambi i lavori citati glissa sulla sua origine e la introduce, sic et simpliciter, solo quando dal “codice numerico” dei suoi dizionari passa al cosiddetto “codice Morse”. Questo, d’ora in avanti, per chiarezza, lo chiameremo “alfabeto Vail” (vedi nota 26), con l’ulteriore riserva che, includendo anche numeri e segni di punteggiatura[36], esso è in realtà un completo sistema alfanumerico.

Anche la scelta degli “ingredienti”[37] dell’alfabeto Vail è avvolta nel mistero. Certo, nella “rivoluzione copernicana” – come è stata giustamente definita – del passaggio dal primitivo codice Morse all’alfabeto Vail, un criterio guida sarà stato la frequenza delle lettere nella lingua americana[38], ma probabilmente avranno avuto il loro peso anche fattori fonetici, prosodici o semplicemente eufonici – se non altro, per la scelta dei numeri[39] e dei segni di punteggiatura. Ma per il momento su questi problemi, eminentemente linguistici, non possiamo che attirare l’attenzione degli specialisti.

I “segni” finora incontrati, e descritti da Morse con molta chiarezza, sono solo due, il punto e lo spazio, manca il terzo, la linea[40]. Se però esaminiamo con attenzione le Fig. 5, 6, 7 noteremo un altro segno, piuttosto strano, usato per indicare la cifra 0,    al posto dei 5 punti, o dot, che ci saremmo aspettati in base alla tabella di p. 11 e che puntualmente ritroviamo nel diagramma della Fig. 8. Si tratta del “punto invertito”, un segno chiave per la genesi della linea[41].

Secondo Shaffner (op. cit., p. 409-410) il punto invertito, invece di indicare lo zero, serviva a discriminare i numeri veri dai numeri-dizionario; secondo altri erano due punti invertiti consecutivi che delimitavano il segmento “vuoto” e cioè lo zero… L’unica strada per non perderci nelle ipotesi è esaminare, fisicamente, il modo in cui quel sistema primitivo a pendolo poteva generare, o meglio “ricevere”, un punto invertito. È facile vedere che, sistemando nel regolo-compositoio del “trasmettitore” un tipo, per così dire, “femmina[42], sagomato così:

 

Descrizione: M

Fig. 10,

 

la punta del pendolo del “ricevitore”, dopo esser passata “dall’altro lato” della banda, cioè nella posizione di lavoro o “attratta” (Fig. 4), tracciava un “triangoletto” ( /\ ) orientato in senso inverso rispetto al punto normale ( \/ )[43], indi di nuovo un piccolo segmento di lavoro e infine tornava alla posizione di riposo (base di riferimento).

È ancora più facile però convenire che questo esperimento porta – e sicuramente ha portato Morse, Vail o chi per loro – ad almeno tre considerazioni:

1) se si cerca solo un terzo elemento combinatorio, dopo il punto e lo spazio, questo andirivieni del punto invertito è ridondante, essendo invece sufficiente a quello scopo un piccolo segmento della linea di lavoro (che poi si chiamerà linea tout court);

2) si può introdurre anche la lunghezza di tale linea per aumentare il numero delle variabili, ed infatti nel Morse americano esistono tre linee: dash (T), long dash (L) ed extra long dash (zero)[44];

3) il punto invertito si può usare come legamento (liaison) tra due o tre linee. In tal caso il tipo della Fig. 10 fornisce due linee (lettera M), mentre quello della Fig. 11 fornisce tre linee (lettera O del Morse europeo o numero 5 del Morse americano)[45].

 

Descrizione: o

Fig. 11

 

 

 

7 – Morse primario e secondario

 

La linea Morse, la cui genesi è stata dunque casuale ed empirica, ha rappresentato la vera e sostanziale innovazione che, prendendo in contropiede lo stesso Morse[46], ha decretato il successo mondiale del telegrafo – Morse per antonomasia – e la sua oralizzazione”, cioè il passaggio[47] dalla fruizione visiva (segnali fissati e letti poi sulla zona) a quella uditiva (segnali auralizzati e letti in tempo reale sul sounder[48]).

Con lo sviluppo del Morse si è attuato un altro drastico, ma inavvertito, cambiamento  e cioè il passaggio dal “Morse primario” (del 1835, a pendolo) di tipo analogico (segnale continuo) al “Morse secondario” (del 1844, a leva) di tipo diciamo digitale (segnale discreto). La causa è stata la semplificazione della rappresentazione grafica dei tre segni Morse. Invece di ricorrere ai tipi e/o agli oscillogrammi completi, si è segnato il punto \/ semplicemente con un punto ▪ e la linea  \/  con una linea ▬ , mentre lo spazio, dato dalla posizione di riposo ¯ , lo si è reso addirittura invisibile non segnandolo affatto (Fig. 18). Ne deriva che le sequenze di punti e linee che si trovano nei testi di telegrafia sono un Morse apparente, surrogato di quello vero.

Le poche ricerche[49] – tecniche, psicologiche e linguistiche – esistenti sulla telegrafia sono state fatte sul Morse secondario e, per di più, sul Morse internazionale, che è un derivato, un’edulcorazione del Morse americano. Uniche eccezioni sono i due studi, appunto e veramente “eccezionali”, dello psicologo Bryan e del telegrafista Harter[50].

 

Descrizione: Harter2       Descrizione: Tosi

                                      Fig. 14                                                  Fig. 15

 

Nel laboratorio di psicologia dell’Università dell’Indiana fu ricostruito, per così dire, l’antico armamentario di Morse: un tamburo ruotante a velocità uniforme e sulla cui carta affumicata veniva registrata l’escursione up/down della leva di un sounder[51]. La Fig. 14 contiene 17 tracce, in Morse primario, si badi, della parola “VIA” (che in Morse secondario invece si scrive:   ▪ ▪ ▪ ▬    ▪ ▪    ▪ ▬  ): la prima traccia è ideale, di riferimento, le altre dei 16 operatori telegrafici usati come soggetti di esperimento.

Poiché la lingua telegrafica può essere tradotta meglio di qualsiasi altra in simboli esattamente misurabili i risultati di Bryan e Harter, ricchissimi di tabelle, diagrammi e preziosi dati statistici devono essere ripresi e approfonditi con apparecchiature più moderne e più sensibili, che mettano in evidenza, in particolare, i microscopici rimbalzi ad ogni urto della leva contro i finecorsa up/down (Fig. 15) o l’oscuro fenomeno percettivo intravisto dagli autori per cui a volte, per una sorta di inversione dell’attenzione, i colpi di ritorno o contraccolpi (up stroke) sono uditi come colpi, diciamo, “di andata” (down stroke) e viceversa. Cambierebbe soprattutto la finalità della ricerca: non il padroneggiamento della telegrafia, ma la linguistica generale.

 

 

 

8 – Il “pendello” di Morse

 

Nel 1844, dopo circa dieci anni dalla sua ideazione, il telegrafo di Morse non è più “a pendolo”, ma “a leva”. Il trasmettitore non è più quello diciamo “automatico” con i dispacci precomposti, ma è letteralmente “manuale”: il classico tasto (key, chiave) cosiddetto verticale affidato alla mano e all’abilità (skill) dell’operatore. Il ricevitore invece è l’altrettanto classica (in Europa) scrivente (con rotella che inchiostra la zona con i segni del “Morse secondario”) o il sounder americano, senza zona. In tutti e tre questi apparati l’elemento fondamentale è una leva, la cosiddetta “leva Morse[52].

Negli anni vari inventori hanno contestato a Morse le molte e sostanziali differenze tra il telegrafo della pratica e quello delle sue antiche rivendicazioni, ma nei tribunali, com’è noto, egli ha sempre saputo cavarsela con abilità. Nei lavori citati (Rapporto e Pamphlet, entrambi del 1867), riepilogando con lucidità quelle antiche polemiche, Morse continua a portare acqua al suo mulino. Le critiche sulla leva/pendolo, in particolare, le rintuzza – arrampicandosi, a volte, sugli specchi – con l’aiuto di un disegno (Fig. 16 e di copertina, da Pamphlet) e con queste argomentazioni[53]:

 

Descrizione: Pendolo di Morse         Descrizione: emboss

                                Fig. 16 (vedi copertina)                                   Fig. 17

 

“A qualcuno può sembrare strano che l’idea del movimento diretto up-down della leva (Fig. 17) per segnare sulla carta (il progetto ideato a bordo della nave, e che ora è il più diffuso) non sia stata la prima ad essere messa in pratica… Avendo scelto, per motivi economici, il telaio da pittore che avevo a portata di mano, dovetti adattare le parti a questa scelta, anche se faceva raggiungere i miei obiettivi in una maniera più indiretta. È ovvio che l’azione diretta della leva, oggi universalmente usata nella scrivente, avrebbe permesso il miglior risultato… Un requisito della leva doveva essere la leggerezza e parve che fosse più facilmente ottenuta sospendendola al suo fulcro f, però, specialmente perchè come primo strumento per segnare era stata scelta una matita, si ritenne necessario evitare in qualche modo il connesso colpo (blow) diretto della matita sulla carta, che ne metteva a rischio la punta, e quindi fu adottato lo scorrevole (sliding) movimento a zig-zag” (Pamphlet p. 768).

La strategia di Morse si dispiega su almeno tre fronti. Primo, il suo pendolo in buona sostanza è una leva, perché basta pensare la punta incidente m (Fig. 17) sistemata sul prolungamento del pendolo oltre il suo punto di sospensione, che così diventa un fulcro (f, vedi Fig. 16), mentre la “potenza” rimane l’elettromagnete h. Secondo, ha preferito sistemare la zona mantenendone la complanarità col movimento della leva/pendolo, che così risultava scorrevole, dando oscillogrammi completi; se invece avesse scelto la perpendicolarità tra il movimento della zona e quello della leva i violenti colpi di questa avrebbero potuto spezzare la punta della matita[54]. Terzo, lo stilo di acciaio m (del “contropendolo”, diciamo così) che incide (to emboss) nella zona superiore (Fig. 16) è un voluto miglioramento rispetto alla rotella inchiostrata.

L’escamotage “pendello” (pendolo + martello)[55] avrà convinto i giudici, ma per la nostra indagine è addirittura prezioso perché mostra con la massima chiarezza la relazione tra il Morse primario (oscillogramma o zig-zag sulla zona inferiore), dinamico e integrale, e il Morse secondario (punti e linee sulla zona superiore), traccia statica o punta dell’iceberg del primo (Fig. 16).

In un luogo in cui questa corrispondenza è ancora più evidente (Pamphlet, p. 763), Morse – purtroppo e indirettamente – sconfessa il suo primo telegrafo dicendo che il zig-zag può essere tralasciato perché bastano o contano solo i punti e le linee:

 

                                                 Morse primario

Descrizione: 763  Fig. 18

                                                Morse secondario

 

In questo studio credo di aver dimostrato che invece non è così, perché i soli punti e le sole linee mascherano e fanno dimenticare la dinamica che li sottende.

 

 

 

9 – Pendolarità e pressività

 

Nei testi sacri di telegrafia il punto e la linea vengono (o venivano, perché il Morse ormai è in disarmo) addirittura definiti semplicemente in base alle classiche[56] tabelle di timing: punto 1 unità, linea 3 unità, spazio intercaratteri 3 unità… Tale prassi era legittimata non tanto dalla precisione matematica del primo Morse (vedi cap. 4), quanto dall’esistenza della telegrafia automatica (ad esempio Wheatstone) in cui, per motivi tecnico-costruttivi, il timing di cui sopra è rispettato al millisecondo[57].

Punto e linea differiscono si per la durata, ma si tratta di una differenza conseguente, secondaria. La loro diversità vera, in base a quanto abbiamo ricostruito e dimostrato, è invece di natura sostanziale: il punto nasce da pendolarità, la linea da pressività[58].

Il telegrafo ad ago, che come abbiamo accennato c’era già prima del Morse, aveva una sensibilità squisitissima, tanto che l’oscillazione dell’indice non dipendeva dalla forza ma solo dal verso della corrente[59]. Il movimento dell’indice (ago), in altri termini, era senza attriti e sensibilmente pendolare. Ebbene, credo di poter affermare che anche il primo telegrafo di Morse, quello col “pendolo” a forma di A e in cui non era stata ancora introdotta la linea (vedi cap. 3), era essenzialmente un sensibile telegrafo-galvanometro con regolarissime oscillazioni pendolari, “impulsate” come quelle dei pendoli elettromagnetici degli orologi[60].

Ne deriva che la caratteristica saliente e caratterizzante del punto nel Morse primario era (è) la pendolarità. Le onde triangolari o a zig-zag (Morse), cuspidate (Karrass) o trapezoidali (Bryan e Harter) che abbiamo incontrato dovranno perciò ritenersi o approssimarsi, nel caso del punto, a sinusoidi[61].

Un’accurata prova strumentale potrà confermarlo, mentre le onde quadre dei trattati di telegrafia (Fig. 19) manterranno il loro valore per il solo Morse secondario.

 

Descrizione: Tosi1 

Fig. 19

 

Il polso del telegrafista, specialmente quello americano che doveva fare sequenze interminabili di punti, per non stancarsi e per rendere la trasmissione “leggibile” nel sounder del destinatario[62], doveva oscillare pendolarmente[63]. Questo significa che il “tocco” (up/down) negli arresti del sounder e della scrivente Morse[64] doveva essere preciso[65], delicato (sliding), in decelerazione e senza i troppi rimbalzi della Fig. 15.

Diverso, anzi opposto, è il caso della linea. Qui c’è dispendio energetico, la forza in gioco è “diversa” da quella del punto (Perera), il “tocco”, soprattutto sull’incudine inferiore[66] del sounder (down stroke[67]), va pensato quasi come un colpo di martello. Il miglior paragone per descrivere la linea e la sua pressività è quello di un indice fuori scala. Qualsiasi tecnico (specie elettrotecnico) qualche volta, per sbaglio, avrà fatto una misura con uno strumento analogico con portata insufficiente. L’ago allora sbatte violentemente sul fondo scala[68] con un rumore secco, provvidenziale peraltro per limitare i danni. Infatti, se il distratto e maldestro tecnico si accorge prontamente dell’anomalia e aumenta la portata o interrompe il circuito lo strumento si “salva”;  se invece il “sovraccarico” permane per qualche tempo lo strumento “defunge”, perchè la bobina, per il troppo calore (effetto Joule), si brucia.

Naturalmente questo rischio con le bobine dei sounder o delle scriventi Morse non c’è, perché sono dimensionate per sopportare anche correnti sempre permanenti[69], però il concetto rimane, si voglia chiamarlo sovraccarico, pressività o saturazione.

 

 

 

10 – La lingua è… Morse

 

Si è sempre discusso se il Morse sia una lingua o no. Nei paragrafi successivi diremo qualcosa in proposito, mentre nel prosieguo invertiremo il problema sostenendo che ogni lingua è, in certo senso, “Morse”, perchè poggia su dicotomie inavvertite e analoghe a quelle telegrafiche: pendolarità (punto) / pressività (linea).

La lingua è patrimonio comune di un popolo. Il Morse è una lingua ridotta, limitata alla comunità dei telegrafisti, o meglio a determinati gruppi di “utenti” di certe zone e di certi tempi ben delimitati: reporter dell’Associated Press, dispatcher delle ferrovie, ufficiali postali, genieri radiotelegrafisti, marconisti di bordo, radioamatori, ecc. Ognuna di queste comunità ha la sua “lingua” Morse, il suo gergo, i suoi simboli, i suoi codici (convenuti, segreti, crittografati, ecc.), le abbreviazioni, le stenografie.

Un equivoco sottile, e ricorrente, è quello di dire che due radiotelegrafisti, mettiamo, tedeschi – cioè appartenenti allo stesso dominio linguistico – usano il Morse per raccontarsi i fatti loro: essi non parlano “in Morse”, parlano “in tedesco”, usando un alfabeto di punti e linee ad entrambi noto. Il supporto tecnico (filo, radio, ecc.) serve loro per vincere le distanze, il supporto linguistico (alfabeto Vail) per risparmiare sulla larghezza di banda o, semplicemente, per non farsi intendere dagli estranei[70]. Se invece i nostri due amici si scambiano notizie diciamo di lavoro o “di servizio” (dati meteo, quotazioni di mercato, segnaletica navale, controllo del volo, ecc.) e usano codici (Phillips, Q, ABC, ecc.), sigle, gerghi, segnali precostituiti, allora il loro Morse è si lingua, ma ben povera, perché non consta di veri segni linguistici[71].

Le considerazioni linguistiche[72] fatte finora su oralità e scrittura, qui e altrove, sono certamente giuste, ma accademiche, o fuorvianti, perché “il Morse non è una lingua, ma una forma dell’alfabeto, simile a quella scritta, che serve a comunicare in ogni lingua, usando le parole, la grammatica e la sintassi di quella lingua[73].

Mettiamo da parte dunque le disquisizioni oziose sulla “linguisticità” della telegrafia e vediamo invece di far tesoro delle sicure nozioni tecniche acquisite. Il Morse infatti può essere un prezioso strumento – quasi un microscopio, o meglio un cronoscopio – per studiare i più nascosti segreti della lingua, inaccessibili ai nostri[74] sensi “nudi”, cioè disarmati, privi di protesi o amplificatori sensoriali.

Inizieremo la nostra indagine con la scorta[75] o viatico di alcune citazioni-chiave, che, pur nella loro ermeticità, esprimono un concetto saputo, almeno dai linguisti, e cioè che la lingua presenta due livelli o aspetti: sema e iposema. Vedremo che questi due livelli saranno caratterizzati, rispettivamente, da pressività e pendolarità.

“Le semplici parole isolate non sono un segno linguistico, purché ciascuna non costituisca una frase: l’isolamento le priva di ogni dinamicità, le riduce a simboli, generici e in molti casi ambigui, di una porzione del mondo concettuale (per tacere delle 'parole vuote' ossia degli elementi grammaticali: congiunzioni, preposizioni, ecc.). Le parole, in quanto portatrici di un sapere statico, sono punti di riferimento indispensabili, anche se approssimati per lo spirito che si volge al concreto o all’astratto, ma proprio tale staticità e genericità di valore sono altra cosa dalla dinamicità e individualità della “parola”. Pertanto, le entità che vediamo operanti nella frase-segno sono subordinate a tale segno: comunemente anch’esse sono dette segni, meglio le diremo, seguendo Mario Lucidi, sottosegni (o, con termine grecizzante, iposemi), rispettando il loro essere in sottordine e la mancanza di significatività che le contraddistingue    Gli iposemi si distinguono in:

 

sintagmi   (o combinazioni di parole),

parole      (o combinazioni di fonemi)

fonemi     (o combinazioni di coefficienti acustico-articolatori)

 

 … Il patrimonio di iposemi comune e superindividuale è ciò che una comunità intende per lingua, ed è in fondo un sentimento frutto di osservazioni elementari sui propri e sugli altrui atti linguistici” [76].

Questi iposemi (sottosegni) sono “entità con particolari caratteri, e cioè reali come entità funzionanti solo quando e in quanto funzionano in un ambito superiore e d’altra natura, trascendenti in questo particolare modo di essere la singola realizzazione e repetenti, all’atto del funzionare, l’elemento individuativo dal far parte integrante di un complesso di unità dello stesso genere[77].

 

 

 

11 – Il “turno” di Lucidi[78]

 

Il capitolo “Il disdegno di Guido” dedicato a Mario Lucidi e inserito nel mio Atomo Etica e Fonetica (AG 13) non è passato del tutto sotto silenzio. Il prof. Belardi, per esempio, nel mandarmi il suo ultimo scritto[79], prezioso per delineare ancora meglio la figura di Lucidistudioso atipico, non gregario, scomodo…”, mi onora di qualche apprezzamento. Sono riconoscente anche al prof. Gambarara per l’attenzione con cui mi segue[80], per qualche indiscrezione[81], ugualmente utile allo stesso fine, e soprattutto per gli insegnamenti e i consigli di cui mi è prodigo[82]. Sono infine grato al prof. Bertinetto che garbatamente mi ricorda che Lucidi non è dimenticato[83].

Si, in qualche repertorio, anche prestigioso come il Lexicon Grammaticorum, il nome del Nostro si può trovare, solo che Lucidi non è autore da bibliografia, Lucidi è un genio. È questo l’equivoco di fondo, in cui anche Belardi continua a cadere, come dimostra il lapsus in una email privata dove si reputa “l’unico linguista che ha ricordato il valore positivo della scoperta di Lucidi”. Egli parla di “scoperta”, ma in realtà intende dire semplicemente “teoria” (quella della tensività), a cui infatti si era riferito poco prima nell’email. Lo stesso dicasi degli altri, rarissimi, estimatori.

Ma anche lasciando da parte le scoperte, non si creda che sul pensiero di Lucidi le idee siano chiare! Si pensi solo all’iposema, che Belardi ha sempre ed esplicitamente rigettato, anche se “in tutto il suo discorso scientifico non ha mai mancato di citare Lucidi quando il tema lo imponeva, accettando il suo pensiero, se lo riteneva giusto, criticandolo, se lo riteneva ingiusto”, continuando “è assurdo presentare Pagliaro come allievo oltre che maestro di Lucidi. Tra i contenuti scientifici delle rispettive personalità la differenza era enorme. L’idea della priorità della frase-sema (che io non condivido, perché la questione è assai più complessa) è in entrambi, ma non credo che Pagliaro l’abbia derivata da Lucidi” (Comunicazione personale).

Se Belardi, nel lavoro citato, è l’unico a utilizzare, con cognizione di causa, o a ricordare, meritoriamente, le idee di Lucidi (le linguistiche, più che le prosodiche), gli altri linguisti, nessuno escluso, si sono limitati a inserire in qualche bibliografia il nome del Nostro (per bella figura, per far numero o forse per lavacro di coscienza). Le beghe accademiche, comunque, hanno intralciato il percorso scientifico anche del Belardi (vedi cap. 12). Ora però è il “turno di Lucidi, non per dare a Cesare quel che è di Cesare (primogeniture), ma per capire realmente il “turno” di Lucidi.

Per presentare la sua scoperta – scoperta, si badi, non semplice teoriaLucidi, per prima cosa, invitò a fare un esperimento: “Si parli ad alta voce con se stessi domandandosi e rispondendosi rispettivamente:

 

Che turno fai? Di notte.                  Che turno hai? Di notte.

 

La parola notte presenterà, nei due casi, identici tutti gli altri prosodemi, meno la tensività. Nel primo caso si avrà, in notte, o estensa. Nel secondo caso, o intensa. L’esperimento rimane anche più efficace se si esegue bisbigliando la frase con la minima energia possibile”[84].

Purtroppo l’esperimento non riesce. Anche se tutti avvertiamo qualcosa di diverso nella vocale o di “notte”, si tratta di sensazioni troppo vaghe, non formalizzabili e che paiono dipendere principalmente dalle variabilissime condizioni di realizzazione, piuttosto che dalle presunte “costanti articolatorie” scoperte e segnalate da Lucidi[85].

L’unica ripresa di questo ormai “storico” e sfortunato esperimento si deve a Belardi che, da buon linguista – o forse con i paraocchi del buon linguista – nella locuzione “di notte” vedrebbe, se ho bene inteso, un complemento di specificazione in risposta a “che turno fai?” e un complemento di tempo in risposta a “che turno hai?[86].

Gambarara, che accetterebbe questa interpretazione, mi ha chiarito, da linguista forse ancor più fino, che nel primo caso il “di notte” si riferisce o aggancia a “turno”, nel secondo caso è invece un’espressione più autonoma (avverbiale, olofrastica).

Probabilmente la strada è questa, ma resta da spiegare l’enigma principale, cioè l’invertibilità arbitraria, al massimo dipendente dal contesto, delle due attribuzioni o funzioni, quella specificativa e quella temporale[87].

 

 

 

12 – Estense e intense

 

Scrive Belardi: “Se Lucidi avesse potuto completare i suoi rigorosi e precisi studi … oggi disporremmo di buone basi per riesaminare dalle fondamenta il principio della 'rilevanza' linguistica”[88]; “Lucidi tenne conto dell’intonazione, ma concluse che nel parlato il ruolo decisivo spettasse all’energia articolatoria”[89]. Peccato che tra queste due proposizioni intercorrano parecchi decenni, altrimenti lo stesso Belardi si sarebbe accorto che la rilevanza linguistica non andava cercata in ambito fonetico, ma articolatorio (energetico), e che anzi il primo mascherava il secondo[90].

L’articolazione fonetica – l’insegnava anche Belardi nelle sue lezioni di glottologia – ha si un fine extrafisiologico, quello semantico, del significare, ma tuttavia rimane un processo neuromuscolare, basato su relazioni energetiche, come ha scoperto Lucidi:   “… I concetti di cui dispone presentemente l'acustica non permetteranno di far luce completa sulle varie questioni, perché nei rispetti delle due manifestazioni fondamentali del fenomeno acustico, musica e lingua, non si è finora seguita l'unica via per la quale sarebbe stato legittimo indagare su di esse, considerandole, cioè, per quel che esse sono effettivamente, vale a dire manifestazioni energetiche in sé conchiuse. Ci si è limitati ad esaminare singoli elementi staticamente considerati (una parola, un fonema, una nota, un intervallo ecc.). Di conseguenza l'acustica è rimasta ancorata allo stadio iniziale di acustica statica il che è presumibile porterà, quando si studieranno i fenomeni sonori nel loro effettivo realizzarsi conchiuso, agli stessi inconvenienti a cui andremmo incontro studiando fatti elettrodinamici con criteri elettrostatici. È quindi evidente che si impone l'instaurazione di un'acustica dinamica nella quale, penso, ciò che abbiamo chiamata 'tenuta di timbro' sarà paragonabile a quello che si chiama altrove 'livello' o 'potenziale'. Non va dimenticato, infatti, che il tono ha senza meno qualcosa di comune con ciò che noi potremmo intendere con 'livello', ma il fatto stesso che nelle relazioni tonali ciò che conta è il rapporto ci dice come solo dinamicamente si potrà chiarire l'argomento. … È da presumere che le relazioni energetiche siano costanti, costituendo il meccanismo stesso del linguaggio, ma è certo indubbio che il loro realizzarsi è storicamente individuato nel tempo e nello spazio” (Lucidi, Prosodemi, cit.).

Se mezzo secolo fa l’acustica, “statica” e senza concetti adeguati, non poteva far piena luce sulla scoperta di Lucidi, ora le nozioni di telegrafia acquisite possono in buona misura sopperire a quella carenza.

Finora gli svariatissimi rilievi di elettroacustica (livelli, decibel, phon, Hertz, ecc.) sono stati fatti sugli oscillogrammi del “segnale” raccolto dai microfoni, cioè in ambiente fonetico, ma oggi, dopo Lucidi, sappiamo che questo ambiente è solo di intralcio. Bisogna lavorare invece in ambito articolatorio e considerare non quello che si vede o viene raccolto dai microfoni, ma quello che “si sente”. Per far questo la strada è misurare non l’energia acustica, ma il substrato articolatorio nascosto[91].

Dalla telegrafia abbiamo assodato che l’energia articolatoria della manipolazione Morse può essere minima, nel caso del punto (pendolarità), o massima, nel caso della linea (pressività o saturazione), e che questa differenza energetico-articolatoria non era percepita perché mascherata da fenomeni secondari, ma più immediatamente rilevabili: la durata e l’aspetto acustico del punto e della linea[92]. Le nuove o le buone basi auspicate dal Belardiper riesaminare dalle fondamenta il principio della rilevanza linguistica” (o semantica) sono dunque quelle della “rilevanza energetica”.

Lucidi percepiva – non tanto per il finissimo orecchio[93] quanto probabilmente dopo i convincimenti teorici cui era con fatica giunto – la rilevanza energetico-semantica delle parole. Quelle più rilevanti o importanti (energeticamente e semanticamente) e su cui il parlante inconsciamente appunta l’attenzione o interesse le chiamò intense; le altre, che per l’alternanza attentiva devono essere meno impegnative, estense.

Un criterio collaterale per discriminare estense e intense è il grado di astrazione. Tutte le parole scritte sono iposemi astratti, ripetibili all’infinito e diventano semi concreti solo dopo essere entrati nella sfera psichica individuale – del parlante, del lettore o dell’ascoltatore. Quando invece si parla le parole possono essere proferite in accezione concreta (intense) o in accezione astratta (estense)[94].

La lingua o dominio linguistico è in realtà un patrimonio di iposemi “in condominio”. All’occorrenza i parlanti-condomini si appropriano di un iposema, lo concretizzano e per così dire se lo “semantizzano”, con dispendio energetico. Ma per la citata legge neuronale dell’alternanza tale dispendio non può essere continuativo e così a un sema (concreto, intenso, saturo) segue a ruota un iposema (astratto, estenso, pendolare). Nell’intensa c’è la propria impronta, il sigillo della partecipazione; nell’estensa no.

 

 

 

13 – La “conta” di Lucidi

 

Per quello che ne so gli unici studi esistenti su conte e filastrocche sono quelli colti e divertiti di Eco & C. sulle tre civette[95]. Contrariamente all’apparenza tale lavoro del più grande semiologo italiano potrebbe essere serissimo qualora l’autore lo ritenesse – come mi auguro – non semplicemente una pagliacciata o un divertissement dai severi o veramente “seri” suoi studi semiologici[96], ma un messaggio, ex cathedra, per professare che sulla semantica tutte le analisi e le “critiche” sono impossibili[97].

L’analisi è invece fattibile, anzi è doveroso farla, a livello più modesto, se il linguista ha l’umiltà di diventare “tecnico” della lingua e occuparsi non di semi ma di iposemi. Non si tratta soltanto di questioni terminologiche, ma di un salto qualitativo che solo chi conosce Lucidi – non solo di nome o per citazioni di riporto – può comprendere.

La “conta” delle civette che, per esempio, si fa tra un gruppo di bambini che si contendono una caramella, è di tipo sillabico e soprattutto “approssimativa”, giocosa. Con un po’ di abilità si può anche barare “intrufugliando” le sillabe verso l’inizio (ambarambàciccìcocò…) per “pilotare” quelle finali, e risolutive (…ci-ciì-co-coò!), su chi si vuole.

Una conta meno fraudolenta e più seria, da bambini più grandicelli (mettiamo, per battere la palla), è quella notissima fatta non di sillabe ma con i nomi dei numeri. Dopo aver stabilito da chi “tocca” iniziare la conta i giocatori “gettano” tutti insieme con la mano un numero, come alla morra. Fatta la somma delle dita gettate si inizia a contare indicando ciclicamente (in senso orario, di norma) tutti i giocatori. Poiché questa conta ha uno scopo pratico (sorteggiare qualcuno) la chiameremo concreta.

Subito dopo si invita lo stesso giocatore che ha fatto la conta a rifarne una fittizia, e cioè semplicemente a contare mettiamo fino a 15, con lo stesso tono di voce e lo stesso ritmo, però “a vuoto”, cioè senza abbinare ogni numero ad un ragazzo. Questa seconda conta, puramente virtuale, a memoria, la chiamiamo astratta[98].

Ora possiamo fare un esperimento “lucidiano”, più probante di quello del “turno[99]: se ci mettiamo in condizione di udire la voce “contante”, senza però vedere la scena, riusciremo senza meno a discriminare la conta vera o concreta da quella finta[100].

Questo esperimento, mi auguro, farà prestare maggiore attenzione alle due conte più scientifiche presentate da Lucidi: la numerazione della serie cardinale fatta partendo da zero e quella della serie ordinale fatta partendo da zeresimo[101]. Entrambe sono caratterizzate da un ritmo prosodico binario – e inavvertito – di estense e intense:

 

serie

intenso

estenso

intenso

estenso

intenso

ecc.

cardinale

zero

uno

due

tre

quattro

ordinale

 

zeresimo

primo

secondo

terzo

 

Sappiamo che l’attenzione del parlante, qui semplicemente “contante”, deve pulsare tra una fase di lavoro (intensa) e una di riposo (estensa). Nell’enumerare la serie dei numeri cardinali non si può non dar peso al primo termine della serie e quindi si ha zero = intenso e conseguentemente tutti i dispari estensi e tutti i pari intensi. Invece nell’enumerare la serie degli ordinali lo spirito istintivamente reputa estraneo e strano il primo termine zeresimo, perché “non significa niente” o quanto meno è desueto[102].  Si ha allora zeresimo = estenso, perché il cervello, avendo la possibilità e l’arbitrio di optare con quale “piede” metrico iniziare[103] (destro o sinistro, per così dire), decide che zeresimo, piazzato lì in astratto[104] e senza alcuna funzionalità, “non conta[105] e sceglie la pronuncia “tirata via”, energeticamente meno impegnativa, cioè l’estensa. Automaticamente nella serie ordinale i pari saranno estensi, i dispari intensi[106].

Sicuramente l’alternanza dell’attenzione è legata a quella del respiro e potrebbe essere pertinente l’esempio del cassiere di banca che velocissimo conta mucchietti di soldi quasi bisbigliando o addirittura con voce afona (linguaggio endofasico)[107]. 

Nel capitolo seguente cercheremo di spiegarci non solo perché di questi fenomeni di conta non si ha …contezza, ma soprattutto perché possono apparire parascientifici.

 

 

 

14 – L’effetto Lucidi

 

“Nel formulare le due serie (cardinale e ordinale) – dice Lucidi bisogna evitare di pronunciarle come se si ripetessero a memoria, perché altrimenti si ha un risultato opposto a quello prospettato qui, e ciò in virtù della norma seguente, che vale per qualunque grado di lingua: quando si riferisce il pensiero altrui, si notifica ciò invertendo la tensività di tutti gli iposemi”. Questo fenomeno è l’effetto Lucidi.

Di norma parliamo spontaneamente, senza “responsabilità linguistica[108], riferendo il pensiero comune (cioè altrui) attinto, condiviso o preso in prestito, per così dire, dal patrimonio o “condominio” linguistico già accennato (cap. 12). Ciò non significa che siamo pappagalli o automi che non capiscono quello che dicono, significa invece che siamo autenticamente genuini pur non usando uno stile letterario. Come esempio limite si pensi ai telegrafisti che, per professione, corrispondevano per conto terzi[109], non entrando affatto nel merito dei dispacci e senza farli propri, anche se “capivano” quello che dicevano (ovviamente mi riferisco a quelli in chiaro, non ai cifrati).

È rarissimo, viceversa, che l’idea espressa sia veramente sentita, privata, nostra. Solo  chi “recita (versi classici) nel vero senso della parola (non necessariamente da un palcoscenico), cioè non riferendo semplicemente a memoria, ma dicendo con la convinzione sentita di aver capito fino in fondo[110] parla “di propria mano”, per così dire autofonicamente[111], e appone la propria firma a quanto proferisce.

Il contare a voce alta (concreto, autentico) oggetti messi in fila equivale a “leggerli”, alternando per legge fisiologica una fase di fissità ad una balistica. Ci si “appropria” allora (appropriazione debita!) solo di quelli su cui cade o fissiamo lo sguardo, o che indichiamo col dito (il gestire), e che così assorbono la nostra attenzione, mentre gli altri rimanendo esterni al nostro campo visivo e a quello attentivo, non li facciamo nostri e li cogliamo o “leggiamo” solo en passant, al volo, “estensamente”.

Ora può capitare, magari incuriositi da queste considerazioni, che si voglia rileggere, ossia ri-guardare o ri-contare, quella serie di oggetti prestando attenzione anche a quelli, mettiamo i pari, che prima avevamo inconsciamente trascurato (come saputi, comuni, pubblici, non nostri). Questo però è impossibile perché il surplus volontario di attenzione (supervigilanza), se porta alla ribalta della coscienza gli enti di ordine pari, contemporaneamente “oscura”, mette in secondo piano quelli di ordine dispari.

Quest’inversione tensiva, o dell’attenzione, è l’effetto Lucidi, che si comprende forse meglio formulandolo al contrario: Se si riferisce il pensiero proprio, si notifica ciò invertendo la tensività di tutti gli iposemi. Poiché l’attenzione ha natura discreta       non è graduabile, o c’è (intensa) o non c’è (estensa) – lo spirito può aumentare la significatività o semanticità dell’iposema, ma non quella del sema, perché questo, essendo semanticamente saturo, collassa nell’iposema.

Tornando all’esperimento del turno (cap. 11), è il verbo che condiziona l’andamento prosodico degli iposemi. Se voglio “appropriarmi” di “hai[112], di regola estenso     (è “inappropriato”, non è mio, non conta), me ne approprio: “hai” diventa intenso, ma contemporaneamente si invertono gli altri due iposemi (che-turno e di-notte). Lo stesso succede partendo da “fai”, di norma intenso (“appropriato”): l’appropriazione diventa per così dire indebita (perché c’è saturazione energetica e semantica) e “fai” commuta in estenso (viene …“espropriato”) e fa invertire anche gli altri due iposemi.

Indagando su Telegrafia e Lingua abbiamo dunque trovato le seguenti dicotomie[113]:

 

˘

ˉ

punto

linea

breve

lunga

pendolare (vuota)

pressiva (satura)

estensa

intensa

astratto

concreto

iposema

sema

ripetibile

irripetibile

formale

sostanziale

risparmio energetico

dispendio energetico

 

 

Descrizione: Free counter



[1] Ma poca in italiano. Qui mi limito a segnalare i lavori utilizzati in questo capitolo: G. Wilson, The Old Telegraphs, London 1976; G. Rossi, Dalla telegrafia a segnali alla TSF, Milano 1930; T. W. Holmes, The semaphore, Ilfracombe 1983. Holmes, negli anni ’20, era semaforista (signalman) della Royal Navy.

[2] I semafori e la segnalazione in genere sono stati definiti la parte più pittoresca delle ferrovie.

[3] I telegrafi Chappe, nel Napolitano, all’inizio non avevano altro scopo che la custodia delle coste. Ciò è tanto vero che allora non si avevano altri segni convenzionali che quelli significanti le cose del mare” G. Masi. Semafori costieri. Bullettino Ufficiale dell’Amministrazione postale, 1866.

[4] Che si continuano a chiamare “frecce” perché nelle prime automobili erano dei piccoli “bracci” che si aprivano, a destra o a sinistra, per indicare “gestualmente” il cambio di direzione di marcia del veicolo.

[5] Anche il gesticolare dei sordomuti che comunicano nella loro lingua dei segni è squisitamente semaforico e, per meglio dire, “semantico”.

[6] Etimologicamente semaforo significa infatti “portatore di segni”.

[7] Un segnale non può dire molto, ma quello che dice lo dice con certezza, senza ingenerare dubbio sul suo significato: è basato su mezzi di pronta percezione, che tutti possono vedere o udire, in modo che la sua stessa pubblicità impegna la responsabilità e quindi l’attenzione degli agenti”. Rossi, cit., p. 83.

[8] Lo specifico della telegrafia, come già ricordato in altri miei lavori [AG 12], è però soprattutto, si badi bene, l’istantaneità della scrittura a distanza (tachigrafia).

[9] A shutters (otturatori o persiane), vedi Holzmann e Pehrson, Early History of Data Network (in rete).   A volte potevano usarsi a guisa di semafori anche le pale dei mulini a vento, variamente posizionate.

[10] In caso di nebbia si doveva per forza ricorrere ai messaggeri a cavallo.

[11] Holmes, cit. Ecco, per esempio, alcune “perle” trovate da Holmes: il semaforo è una forma di telegrafo; fari e lanterne sono telegrafi; Semaforo = apparato di segnalazione mediante braccia oscillanti o bandiere (esatto); Semaforo = apparato di segnalazione mediante lanterne (inesatto); Telegrafo = apparato per trasmettere messaggi a distanza o tavola sui cui sono visualizzati i nomi dei cavalli in una corsa o punteggi di cricket; Dopo questo c’è da meravigliarsi se la gente confonde le due espressioni?

[12] Oppure con sistemi misti, cercando di conciliare velocità di trasmissione e quantità di informazione. Per rendere i semafori Chappe macchine a tutto dire furono provati anche enormi dizionari convenzionali.

[13] S. F. B. MorseExamination of the Telegraphic Apparatus and the Process in Telegraphy. Edited by W. P. Blake. Washington 1870. Quest’opera, che si trova integralmente in rete (Rapporto), contiene una ricca bibliografia (p. 162) alla quale caldamente rimando i lettori che vogliono approfondire il mio studio storico e insieme tecnico. Anche alcuni di tali lavori (Shaffner

, Smith, Pope, Jones) sono in rete.

[14] Il primo telegrafo utilizzato praticamente è stato quello ad aghi di Cooke (1836).

[15] Sul cronoscopio vedi A. Gaeta. Il cronoscopio di Hipp. Un problema telegrafico. Roma 2002 (AG 12).

[16] Venivano usati anche bambini, sordomuti e, in qualche caso, persino minorati psichici.

[17] Questa importantissima aggiunta fu fatta per la prima volta da Steinheil, cui, com’è noto, si deve anche l’uso della terra come filo di ritorno e il primo apparato scrivente, ossia “telegrafico”, europeo (circa contemporaneo a quello americano di Morse).

[18] Vedi lettera di C. Bright a p. 116 e 118 del Rapporto, cit.

[19] S. I. PrimeThe life of S. F. B. Morse. New York 1875. Anche questo libro si trova in rete (Pamphlet).

[20] Nel prosieguo si esamineranno solo le cose salienti di tali apparati, i cui particolari costruttivi (cavalletto da pittore, orologio-motore, regolo-compositoio, ecc.) si danno per scontati perchè noti abbastanza e, comunque, reperibili nelle opere citate e in tutti i libri di storia della telegrafia. Può risultare utile anche la lettura della breve notizia “La tipografia di Morse” (Morse News 58).

[21] La durata, e conseguentemente anche la forza (vedi Le forze del Morse, Morse News 19), dipendeva dallo spessore dei “denti” (cogs) dei caratteri e dalla velocità di avanzamento del regolo-compositoio.

[22] Fatto con una sbarra a ferro di cavallo che Morse aveva avuto da un maniscalco e su cui aveva avvolto un filo isolato (manualmente) in cotone.

[23] Non è escluso che il pittore Morse abbia fatto prove anche con qualcuno dei suoi flessibili pennellini.

[24] Basta pensare l’elettromagnete posto nella parte inferiore di questo disegno della banda di carta.

[25] Se il pendolo avesse oscillazione libera la traccia sarebbe perfettamente sinusoidale o “pendolare”.

[26] Alfabeto e non codice, perché punti e linee sono semplicemente i coefficienti acustico-articolatori (tratti distintivi, o per così dire il DNA) dei 26 fonemi Morse (v. “Il codice fantasma”, Morse News 34).

[27] Un numero = una parola o una frase convenuta. Negli esempi: 58 = telegrafo, 36 = esperimento, ecc.

[28] Il discorso sarebbe lungo: Claude Chappe non aveva ideato un telegrafo a dizionari, ma un tachigrafo.

[29] Sul Morse, per decenni, nelle gazzette e nelle cancellerie dei tribunali di mezzo mondo, sono stati versati fiumi di inchiostro e le polemiche hanno spesso fatto velo a verità scientifiche. Non potendo, e soprattutto non volendo entrare nel merito di questi infiniti contenziosi storici – e cercando invece di rimanere nel dominio dei fatti tecnici – mi limito a dire che a Morse, anche se non ha inventato “niente” come sostengono molti storici, rimangono meriti ben maggiori: lungimiranza, perseveranza e imprenditorialità.

[30] Shaffner riporta la data del 1835, Karrass quella del 1837. Confrontando attentamente i due documenti riportati, relativi chiaramente allo stesso evento, si notano anche delle ulteriori, strane, incongruenze.

[31] Stranamente però negli esempi di Fig. 7 e Fig. 8 il numero 8, per esempio, è trasmesso con 8 impulsi.

[32] Questa spinta “matematicità” del Morse primordiale, numerico, solo scritto, retaggio delle idee del Sully, ha fatto sempre velo all’essenza del vero Morse, quello fonetico e “primario” (vedi cap. 7).

[33] Per il Morse americano v. A. Gaeta. Etica e Fonetica. Roma 2003 e, soprattutto, Morse News (passim).

[34] Solo nel Morse europeo (o internazionale) si poté, per così dire, “rimediare” al presunto inconveniente.

[35] Mistero che tuttavia, a quanto almeno risulta dalle non poche opere compulsate, sembra non sia stato molto avvertito. Il concetto di linea, forse per la sua evidenza, si è sempre dato per acquisito e scontato.

[36] In totale sono 45 elementi. Vedi l’eccellente J. L. Smith, Manual of Telegraphy, circa 1865 (in rete).

[37] Ossia i “tratti distintivi” (o coefficienti acustico-articolatori) punto, spazio e linea.

[38] Mi riferisco alla famosa storia delle casse dei caratteri delle tipografie.

[39] Compresi entro 6 unità, del tutto diversi dalla primitiva codifica e, a giudizio dei telegrafisti americani, particolarmente azzeccati per “leggibilità” (o “copiabilità”) e distinguibilità dalle lettere alfabetiche.

[40] Il Morse americano è fatto di punto, spazio e linee (di varie lunghezze). Quello europeo di punto e linea. 

[41] Su tale genesi, come già detto, Morse sorvola. Anche la letteratura non è chiara, perché spesso le fonti non sono articoli tecnici ma solo verbali o sentenze di tribunali, in cui interessi economici o rivalità offuscano i dati scientifici. Secondo alcune vaghe testimonianze Morse avrebbe codificato tutti i numeri con solo 5 punti più lo “zero”. Per altri avrebbe utilizzato una “linea” in luogo di 5 punti (Pierpont

).