GV 4 – La pila perpetua di Volta (20.4.2008)

Nei trattati tecnici ottocenteschi, nonché in quelli successivi, sono descritte innumerevoli pile: Bunsen, Grove, Wollaston, Novellucci, Minotto, Magrini, Manuelli, Smee, Daniell e infinite altre. Non si trovano però la pila Zamboni (vedi GV 3), la pila De Luc e neanche, si badi, la pila Volta.

Queste tre pile infatti, non essendo di tipo elettrodinamico o “galvanico” (vedi GV 1), bensì di tipo “elettrostatico”, non hanno avuto nessuna applicazione industriale. Per esplicita ammissione, anzi con vanto dei rispettivi autori furono presentate come “perpetue” e servirono solo per suscitare meraviglia, per costruire qualche gadget (campanelli di De Luc e orologi di Zamboni) e per creare o consolidare fama e prestigio – sproporzionato agli effettivi meriti – di Alessandro Volta.

Per essere ancora più chiaro, e mi rivolgo in primis a quell’amico frettoloso che, pensando che io fossi sceso, sono sue parole, “al livello di Zamboni”, commiserandomi, mi ha tolto il saluto, devo correggere l’ultima frase della News precedente: l’archetipo di pila elettrostatica non è la pila di Zamboni, ma quella di Volta, enormemente più nota e forse, nel suo genere, più efficace.

È risaputo, tra gli addetti ai lavori, che Volta era alquanto digiuno di matematica e di chimica (non prestò, per esempio, alcuna attenzione all’elettrolisi dell’acqua) e che molti scienziati autentici, come Beccaria, Galvani, Biot, Spallanzani (e forse anche De Luc), sostennero che egli non seppe intendere la vera teoria degli strumenti che inventava. Tra infiniti ripensamenti (Volta prima maniera, Volta seconda maniera, conduttori di prima classe, di seconda classe, ecc.) e teorie capziosissime lo scienziato comasco pensava che la sua pila fosse un apparato “elettromotore”, mentre si sa che la vera forza elettromotrice non viene “dal” contatto dei metalli – e neanche “dal” vetro (Electricity from glass) – bensì dall’energia chimica o da quella “meccanica” necessaria per ruotare il disco dei generatori elettrostatici, ad esempio quello di Beccaria (vedi BE 16).

Lo specifico della pila di Volta, si badi, non era quello di erogare una “corrente continua”, ma di dare scosse a volontà e senza la necessità di alzare ogni volta lo scudo dell’elettroforo, come si evince anche dalla celebre tavola coeva (1801) presentata. È questo l’“effetto Volta” che, a mio giudizio, ha sommo diritto di cittadinanza scientifica e che va investigato, senza cercare ad ogni costo – come hanno fatto (e fanno), arrampicandosi sugli specchi, schiere di fisici e storici della scienza – di affrancare la pila di Volta dalla sua matrice elettrostatica e dall’insopprimibile ruolo della terra. Bisogna cercare di capire, sulla scorta di Beccaria, come fa quella sfilza di rondelle inumidite a “captare” (e forse poi a “raddrizzare”) l’inesauribile energia atmosferica nella “ricarica” automatica successiva ad ogni “scarica”.

Probabilmente lumi potranno venire dalle ricerche sull’infrarosso, che partendo da Melloni, pare che stiano passando anche per Zamboni.

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