GV 3 – La pila perpetua Zamboni (18.4.2008)

                        

In un libro di S. P. Thompson del 1890 mi aveva molto colpito la notizia che a Oxford c’era un campanello ininterrottamente in funzione da oltre 40 anni e, per di più, alimentato da una fonte di energia del tutto “gratuita”, in pratica da una “pila perpetua”. Leggendo, più recentemente, un altro prezioso lavoro di W. Hackmann (oltre a quello, altrove citato, “Electricity from glass”), The Enigma of Volta’s “Contact Tension” and the Development of the “Dry Pile”, pubblicato in Nuova Voltiana 2000 (ma anche sul web), ho appurato che si tratta della famosa “colonna elettrica De Luc (su cui dovremo tornare), in funzione addirittura dal 1810, in pratica da ben due secoli!

Alla stessa epoca risale una “macchina” egualmente meravigliosa, per non dire “inquietante”, l’orologio perpetuo (foto al centro e disegno della collezione Beltrame a destra) dell’abate Giuseppe Zamboni (1776-1846), tuttora in funzione, pare, a Verona, grazie alla miracolosa “pila Zamboni” (foto a sinistra).

I “motori perpetui” dunque sono più diffusi di quanto si potrebbe credere (si veda su internet) e anche, come nei due casi citati (o nell’elettroscopio di Bohnemberger, nelle “pile telluriche”, ecc.), con pedigree scientifici di tutto rispetto!

Lo Zamboni, nella sua dissertazione del 1812, spiega che la sua pila differiva da quelle di Volta (sia a colonna che a tazze) solo nel fatto che queste erano “ad umido”, mentre la sua era “a secco”. Era formata da migliaia di dischi di carta stagnola, smaltati, da una sola faccia, con un altrettanto sottile strato di biossido di manganese, e impilati in una canna di vetro. La carta benché asciutta, conserverebbe tenacemente un’umidità insensibile, necessaria e sufficiente, per condurre il “fluido elettrico” (p. 18), esattamente come sancito dalla lodatissima teoria voltiana. Male che vada, conclude Zamboni, può funzionare egregiamente da igrometro (p. 24).

Non ho visto, né tanto meno “smontato” (ho spesso ripetuto che mi fido solo dell’esperienza), l’orologio di Zamboni. Presumo che le due “pilette” siano elettrizzate eteronomamente (una inversa dell’altra), che il sistema oscillante abbia un momento di inerzia minimo, che ad ogni attrazione del “bilanciere” la relativa pila vada in “cortocircuito” (ricaricandosi automaticamente subito dopo) grazie ai due contatti ben visibili in testa alle due colonnette, che il sistema sia dotato di buona terra (informazioni, consulenze o chiarimenti al riguardo saranno i benvenuti).

Di sicuro questi orologi (o campanelli, motori, ecc.) non possono essere precisi, affidabili e, ancor meno, sviluppare “potenza”, dipendendo troppo, anzi unicamente, dai capricci meteo, dalle variazioni stagionali, da incontrollabili sia pur sporadici fenomeni di adesione (sticking), dalle condizioni ambientali, ecc.

La pila a secco diede (e forse continua a dare) linfa ai sostenitori della teoria voltiana del contatto. Gli oppositori invece, invocando giustissimamente il principio della conservazione dell’energia, ribattevano che se gli effetti dipendessero dal semplice contatto di due metalli eterogenei, senza dispendio o consumo di niente, si sarebbe avuta la pietra filosofale degli alchimisti!

La pila a secco, per concludere, si può definire l’archetipo di “pila elettrostatica”. Vedremo però, forse con sorpresa di qualcuno, che sarà in buona compagnia.

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