BE 25 – La razza di Galvani (28.1.2008)

          

“Povero Gherardi! Aveva proposto che il Taccuino, nella sua modestissima semplicità, fosse il più desiderabile dei simboli da porsi nel monumento (a Galvani, a destra) che stava preparandosi nella piazzetta dell’Archiginnasio (di Bologna). Voleva che il libretto fosse scolpito e collocato aperto proprio sotto gli occhi del grande Uomo, come l’espressione caratteristica dell’opera sua; e invece lo scultore vi pose una tavoletta colla rana!...”

Con queste parole, che invito a meditare a fondo, Albano Sorbelli chiude la prefazione del celebre – ma non certo presso il grande pubblico! – “Taccuino” di Galvani, riprodotto in fac-simile nel 1937, per il bicentenario della nascita dello scienziato, in sole 500 copie numerate (vedi frontespizio, a sinistra). L’affascinante storia di questo taccuino è ben descritta, con altri dettagli, anche in Leonardo Badioli - Raja Torpedo. Il taccuino di Galvani. Gli esperimenti senigalliesi e riminesi 200 anni dopo, Senigallia 1995. In questa scheda trascelgo solo ciò che ritengo essenziale.

Galvani non sperimentò solo con le rane “morte di fresco”, ma anche con pesci vivi. Anzi, per averli vegeti e gagliardi, e non tramortiti e debilitati a causa del lungo trasporto dal mare fino a Bologna, nella primavera del 1795 si sobbarcò un lungo viaggio a Rimini e Senigallia, per poter studiare in situ, appena pescata, la razza o “raja torpedo” (immagine al centro), un pesce elettrico all’epoca abbondantissimo in quei mari. A Senigallia, in via Maierini 22, c’è ancora la lapide che ricorda, ai troppi distratti, questa dimenticata e sottovalutata pagina della storia dell’elettricità.

Galvani affidò i primi risultati delle sue rilevazioni a un quadernetto, il taccuino appunto, che poi ebbe una storia romanzesca, se non addirittura misteriosa. Alla morte di Galvani infatti passò, assieme ad altri manoscritti, nelle mani prima del fratello Camillo, poi del nipote Giovanni Aldini e infine in quelle di una nipote sposata Mattioli, la quale, trapiantatasi in Inghilterrra, naturalizzò il suo nome in Mathioly.

Silvestro Gherardi, il benemerito curatore e divulgatore delle opere di Galvani, e ancora più benemerito scopritore del Patuzzi (vedi Beccaria vindicato), dopo averlo a lungo cercato, poté avere nelle mani il taccuino, e trascriverne il contenuto, solo nel 1868, ma a patto di non svelare il nome del proprietario. Toccò invece al citato Sorbello, molti decenni dopo, nel 1912, in circostanze meno misteriose, ma ugualmente avvincenti, poter restituire definitivamente all’Italia questo cimelio – di valore scientifico, si badi, ben più grande di quanto si creda.

L’analogia tra la scarica elettrica che la torpedine, mimetizzata nei fondali marini, lancia sulle sue prede, per stordirle e poi cibarsene, e la scossa della giara o boccia di Leida è talmente seducente che Volta presentò il suo “organo elettrico artificiale” (che poi per brevità sarà chiamato “pila”) come ricostruzione dell’“organo elettrico naturale” della torpedine. In realtà, come accennato in BE 11, si tratta di apparati e di fenomeni di ordine essenzialmente, fondamentalmente diverso: la forza elettrica di una pila è una cosa, la forza galvanica della “bottiglia di Leida vivente” è un’altra.

La vittoria di Volta, com’è noto, fu così schiacciante che per trent’anni – almeno – nessuno osò più parlare di “galvanismo” ed elettricità “animale”, cioè dipendente dalla volontà, dall’anima del vivente.

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