1. Sviluppi  (1994-1999)

 

 

1. La nascita del Telegrafino (1994)

A sei anni dal deposito dell’invenzione della Televisione Interattiva Equivalente credo di poterne, e doverne, scrivere la storia con sufficiente distacco. Riferirò però fatti essenziali documentati, limitando il più possibile le opinioni personali.

L’invenzione non è nata di getto, bell’e fatta o per illuminazione superiore, ma è derivata, indirettamente, dalle mie ricerche sulla telegrafia e sulla comunicazione in generale[1]. Mi sono battuto, e continuerò tenacemente a farlo, per riuscire a sfruttare economicamente il brevetto e finanziare così le ricerche da cui l’invenzione era nata.

Nel mio curriculum ci sono quattro domande di brevetto: la prima, del 1987, non è stata accolta, perché non brevettabile; la seconda ha avuto l’attestato, ma dopo qualche anno l’ho abbandonata (non ho più pagato le tasse); la terza l’ho revocata; la quarta, quella che considero il mio capolavoro e di cui sto narrando la storia, ha ottenuto un brevetto che conto di mantenere in ogni caso e a tutti i costi, convinto che il brevetto vero potrà darlo solo il consenso di una collettività.

Dopo aver lavorato a tempo pieno, per quattro mesi, dal novembre ‘93, ero pronto a depositare un sistema affatto diverso di Televisione Interattiva Equivalente, dal titolo Sistema di fonocomando per trasmettere un codice, in parte mimetizzato, da un televisore ad uno o più fonoricevitori posti nello stesso ambiente, allo scopo di simulare, nell’ambito di un gioco televisivo a quiz, un collegamento telegrafico bidirezionale supportato dal normale canale televisivo unidirezionale”. Poi, il 26.3.94, ebbi l’idea[2], che a tutt’oggi considero vincente, di far ricorso a codici temporizzati e mimetizzati (Cap. 3). Ricominciai praticamente tutto daccapo e dopo un altro mese di intenso lavoro depositai. Era nato il Telegrafino (vedi AG 5).

Ma “altro è inventare, altro è far comprendere, accettare, collocare, sfruttare l’invenzione. Qui entrano in gioco qualità spesso estranee all’inventare. La posizione sociale, economica, il prestigio, le qualità espressive, le doti commerciali, la tenacia dell’inventore… hanno una parte essenziale”[3].

 

2. Dal Telegrafino al Bitnick (1995)

Ero convinto che la mia invenzione avrebbe suscitato enorme interesse nei dirigenti televisivi, invece l’unico incontro che sono riuscito ad ottenere, con l’ing. Costardi della RAI, è stato un fallimento. Per non ripetere cose già dette rimando, per l’esito di tale approccio, alla mia lettera a Costardi del 14.11.94 . In un’altra importante lettera alla RAI facevo poi un primo amaro bilancio, ad un anno dall’invenzione. Alla luce di quello che l’esperienza mi ha insegnato, la mia analisi di allora era, come vedremo, parzialmente distorta.

La prima metà del ‘95 l’ho impiegata bussando alle porte di tutte le televisioni private e mandando in giro un foglio illustrativo con la struttura, o Storyboard, del programma che avevo ideato e con le specifiche tecnico-economiche del trovato (vedi AG 5). Parrà strano, ma nessuno mi ha mai risposto. Analogo e inspiegabile silenzio anche dalle numerose redazioni di riviste e quotidiani a cui mandavo i miei depliant, con l’unico risultato di incrementare i bilanci delle Poste Italiane! Uniche eccezioni, la giornalista Simonetta Robiony de La Stampa che mi è stata un po’ a sentire e che ha segnalato la mia invenzione a Pippo Baudo, sempre comunque con risultati nulli; e successivamente Marco Marello, che mi ha cortesemente scritto (13.1.97) che La Stampa non era interessata a divulgare il mio “originale” sistema.

 Un discorso a parte si dovrebbe fare per Michele Guardì, con cui, bene o male, qualche minuto al telefono son riuscito a parlare; tuttavia, non essendo mio costume ripetermi, credo che quello che ho scritto al riguardo in AG 5 sia più che sufficiente.

Verso la fine dell’estate del ‘95, stimolato dai ripetuti insuccessi e forse memore delle osservazioni fattemi l’anno prima da Costardi – l’unico, come accennato, che fosse entrato un po’ nel merito dell’invenzione – mi convinsi che il difetto del mio sistema poteva forse essere un eccesso di finezza (telegrafia = lingua viva, Morse a toni, Morse a sounder, ecc.), imputabile alla mia deformazione professionale di studioso di fonetica. Così, sulla scorta di questa lusinga, svecchiai il Telegrafino, che divenne il microsatellite Bitnick, e gli cucii addosso Count-down, un programma più agile e più adatto alle masse. Con questa modifica il sistema, come per magia, raggiunse quello che ho definito il non plus ultra della semplicità.

Dopo un paio di mesi di riflessioni e di lavoro la nuova idea “semplificatrice” era un fatto compiuto, per lo meno sulla carta. A fine ottobre fu infatti pronto l’opuscolo Count-down, talk show interattivo (vedi AG 6), che mi affrettai di nuovo a mandare in giro, sicuro, anche stavolta, che i destinatari l’avrebbero visto come lo vedevo io.

Il silenzio seguito a questo secondo “giro di consultazioni” fu invece, se possibile, ancora più glaciale e ancora più inspiegabile. Confesso che la tentazione di pensare a congiure del silenzio, a complotti per carpire le idee e i brevetti, a ostilità del mondo intero nei miei confronti si è affacciata più volte alla mia mente, ma assolutamente mai come convinzione radicata, piuttosto invece come sconforto in passeggeri momenti di depressione.

 

3. Mediaset (1996)

C’era poi un altro problema. L’innovazione riguardava solo l’aspetto spettacolare dell’invenzione, in pratica il programma televisivo. Il funzionamento tecnico invece rimaneva si invariato, però la descrizione depositata faceva riferimento a telegrafini e non a microsatelliti. Allora, dato che il funzionamento tecnico del sistema, sempre ai miei occhi, si badi, era estremamente semplice, troppo semplice, ne condensai la descrizione in poche righe, che allegavo alle decine di lettere di offerta del brevetto (vedi, per esempio, all. 1). Che questo escamotage servisse ad attirare e focalizzare l’attenzione sul vero nocciolo dell’invenzione doveva ben presto rivelarsi un’altra pia illusione.

Riferirò, come caso emblematico, quello di Marco Pellegrinato, della Direzione Tecnica Mediaset, che all’inizio dell’anno mi aveva mandato un fax con richiesta di chiarimenti sull’oggetto Bitnick. Li diedi, ma non ne capirono niente, tant’è vero che alcuni mesi dopo, a giugno, mi si ventilò una convocazione a Milano[4] per cercare di adattare il Bitnick ad un programma già varato e che doveva partire a settembre!

Loro avrebbero voluto tutto sul piatto d’argento: numeri zero, prototipi finiti e collaudati, verifiche, ricerche di mercato; io invece avevo da offrire solo una specie di telefonino ticchettante (vedi copertina di AG 5) e un “microsatellite” doppiamente finto[5], il resto dovevano immaginarselo. La cosa sfumò, anche perché ero piuttosto restio ad illustrare a voce il sistema. Meglio, molto meglio – allora ne ero già del tutto convinto – un progetto organico, scritto. Mandai qualcosa, ma evidentemente non bastò (vedi all. 3).

Ho sentito Pellegrinato al telefono pochi mesi fa, dopo avergli segnalato il sito Internet a mio avviso “chiarificatore”. Mi ha risposto di non avervi trovato niente di nuovo e che a Mediaset anche allora avevano capito. Ed ha gentilmente aggiunto una cosa che poi (vedi  Cap. 2) si rivelerà illuminante: “Non c’è alcun motivo razionale per cui non sono stati e non sono interessati al Bitnick: non interessa e basta”.

Successivamente da Mediaset ho avuto due risposte ufficiali, entrambe dal Coordinamento Nuove Proposte (a cui la mia offerta era stata girata dalla segreteria di Maurizio Costanzo), entrambe per raccomandata (10.7.98 e 10.12.98), con testo identico: “Dopo scrupoloso esame … non ci è possibile riscontrare nel Suo progetto gli indispensabili elementi di originalità. Mancano inoltre le specificazioni per … poter riconoscere al programma dignità di format”.

 

4. I Cervelloni (1996)

Un giorno del febbraio ‘96, alla Biblioteca Nazionale, dove vado spessissimo per le mie ricerche storiche, incontrai Luciano De Crescenzo ed ebbi così l’opportunità di parlargli qualche minuto, a quattr’occhi. Non ricordava nessun opuscolo (“gli mandano mille cose…”). Cercai allora di spiegargli che la mia invenzione aveva qualche analogia con il suo antico programma Mille luci, ma l’ingegnere, per nulla incuriosito, mi bloccò cortesemente dicendo che era perfettamente inutile che ne parlassi a lui, e di cercare semmai di arrivare a Porcelli, il regista de “I Cervelloni”, il famoso programma televisivo con gli inventori.

Scrissi allora a tale programma, ma senza avere alcuna risposta. Così, verso i primi di maggio mi presentai alla redazione dei Cervelloni e riuscii a parlare, una buona mezz’ora, con Filippo Romualdi, uno dei responsabili, seppi poi, del casting. Data la natura particolare dell’invenzione (non era il classico pelapatate elettrico!) e dato che non si potevano usare prototipi proposi di fare una simulazione della simulazione, cioè di dare agli spettatori nello studio dei Cervelloni una semplice pallina da ping-pong invece dei Bitnick. Romualdi disse di aver afferrato l’idea, certamente interessante, che ne avrebbe parlato con gli autori e che mi avrebbe fatto sapere. Invece l’unica cosa che Romualdi, dietro mia insistenza, seppe poi dirmi fu che era più che naturale che su migliaia di proposte che ricevevano la maggior parte venivano scartate! Provai allora a scrivere direttamente a Ugo Porcelli, il regista del programma, ma anche stavolta senza alcun esito (vedi all. 2).

L’avventura dei Cervelloni, chiamiamola così, però non era finita. In autunno, alla ripresa del programma, mandai un’altra richiesta di partecipazione, così, tanto per: lo staff poteva essere cambiato e la fortuna avrebbe potuto arridermi.

Ed infatti, il pomeriggio del 27 novembre, mi telefonò una certa Missori che, incuriosita della mia invenzione - e non sapendo niente di palline di ping-pong o altri antefatti! -, mi convocava il giorno dopo per un provino.

Sfortuna volle che, arrivato alla Dear al Nomentano, la persona a cui chiesi dove si facevano i provini dei Cervelloni fosse proprio il Romualdi, che non avevo riconosciuto! Questi invece, individuatomi quasi subito, s’arrabbiò (ritenendomi forse colpevole di lesa maestà) dicendo che quel mio insistere era inutile, che la mia proposta era stata approfonditamente valutata da lui stesso, e quindi non serviva alcun provino!

Ormai comunque ero lì e il provino dovettero farmelo. Ne uscì fuori una cosa pietosa, sia per l’ostilità del Romualdi, sia perché anche la Missori sarà rimasta alquanto delusa: presentavo infatti un’invenzione di carta (l’opuscolo AG 6), un ticchettante Telegrafino sgangherato che doveva immaginarsi come un microsatellite e disponevo solo di un paio di minuti per spiegare il tutto![6]

 

5. Prototipi e demo (1997)

Mi convincevo sempre più che comunicare idee nuove è difficilissimo. Perché? Perché l'interesse era altrove? Perché non si voleva capire? E se invece il motivo fosse stato che nessuno può immaginarsi qualcosa se non vede niente di concreto, di definito, di sensibile (nihil in intellectu quod non ante fuerit in sensu)? Fatto sta che a poco a poco nella mia mente cominciò a prendere forma l’aut aut implicitamente datomi dalla Missori: o mi porta qualcosa da far vedere o i Cervelloni se li scorda!

All’epoca io avevo già 55 anni, un’età alla quale non si può sprecare tempo con la leggerezza o la beata incoscienza dei giovani, specie quando si hanno in cantiere cose più importanti. La decisione di dedicare energie alla costruzione di qualcosa di dimostrativo, di tangibile fu perciò molto sofferta e mi costò anche i comprensibili borbottii di mia moglie, soprattutto a causa dell’ulteriore dispendio di denaro.

I soldi però, in questo caso, sono stati un problema secondario perché, essendo abituato ad arrangiarmi con l’elettronica, mi è bastato del materiale di recupero e poco altro per costruire i tre prototipi dimostrativi: un Bitnick periferico, il Bitnick centrale e il tabellone elettronico. Quest’ultimo, in particolare, faceva le veci di una certo più elegante e funzionale - ma dispendiosa - computergrafica, una tecnologia che tra l’altro, e purtroppo, esulava (ed esula) dalle mie competenze.

Essendomi intestardito a realizzare i Bitnick in scala naturale dovetti lottare non solo col fattore tempo, ma anche col fattore spazio[7]! Alla fine uno dei due Bitnick ho dovuto montarlo in una sfera più grande, fortunosamente rimediata (altrimenti, per esempio, la circuiteria del sintetizzatore dello squillo di telefono non c’entrava). Si potrebbe quasi dire che è stato lavoro più da orologiaio che da elettronico - forse non a caso, dato che la grandezza controllata dall’apparecchio era proprio il tempo.

Gli esperimenti sul campo sono serviti a correggere e focalizzare aspetti non di poco conto. Avevo previsto attese (tolleranze) di 2 sec, che invece si dimostrarono eccessivamente lunghe, un mortorio che penalizzava la briosa vivacità del gioco[8];  i segnali acustici non dovevano essere contemporanei a quelli visivi (di acquisizione dati), ma dovevano precederli, come avvertimento per i “soggetti”[9], ecc.

Finalmente, a metà gennaio, nel salotto trasformato in “studio televisivo” e con la collaborazione di alcuni amici, registrammo una videocassetta di circa 20’, divisa in tre parti: introduzione, esempio di ripresa, esempio di fruizione. Venne fuori una cosa casereccia, avrei potuto perderci più tempo, farla un po’ più professionale, ma la mia filosofia, forse sbagliata, era sempre la solita: chi vuole capire, capisce.

 

6. Il caso Siciliano (1997)

Mandai una ventina di questi video dimostrativi a vip dello spettacolo e dirigenti televisivi, accompagnati da lettere “circolari” e altri appunti (vedi all. 4, all. 5, all. 6), ma la musica non cambiava: nessuna risposta, il silenzio più totale, l’inerzia assoluta.

Naturalmente rimanevo amareggiato e cercavo di capire i motivi dell’insuccesso. Alle precedenti invenzioni, bene o male, qualche risposta l’avevo avuta, qualche difetto o qualche scusa era stata accampata (vedi AG 5), ma stavolta niente, nessun feedback. Cercando di essere il più obbiettivo possibile, non scartavo nemmeno la possibilità che avessi preso qualche granchio madornale, che mi fosse sfuggito qualcosa che azzerava tutta la costruzione, che, in una parola, la mia invenzione fosse stata una cazzata. Neanche lontanamente mi passava per il cervello quello che, a poco a poco, cominciai a scoprire verso la fine del ‘99, e cioè che la gente, pur vedendo e financo leggendo, in realtà non capiva, non poteva capire (vedi Cap. 2).

La tenacia non mi è mai mancata e così, il 26.6.97, scrissi poche righe al neo Presidente della Rai Enzo Siciliano, persona di nota e indiscussa cultura:

“Sono un piccolo, piccolissimo Marconi che ha inventato un dispositivo per aumentare in modo straordinariamente semplice, economico ed efficace le prestazioni della televisione… Il sistema costituisce l’evoluzione tecnologica, spettacolare e soprattutto sociologica del vecchio telequiz…”

Stavolta la risposta ci fu. Una breve nota della Segreteria della Presidenza, datata 12.7.97, a firma Pietro Vecchione, mi informava che il progetto era stato segnalato, per le valutazioni di competenza, al Dott. Giancarlo Leone, Direttore dei Palinsesti.

Dopo l’estate, ingenuamente fiducioso, mi risolsi a telefonare e il Dott. Massimo Mallardo, segretario del Leone, cortesemente mi informò che l’ufficio aveva evaso la pratica e probabilmente non mi era arrivato nulla per un disguido. Ad ogni modo la sostanza era che la cosa non era di loro competenza e che dovevo rivolgermi ai Direttori di Rete o, meglio ancora, ai Cervelloni! In pratica, era il classico gioco di sponda, il palleggiamento di competenze, lo scaricabarile, l’insabbiamento.

Non demordendo per tanto poco e cercando di attaccarmi al, sia pur tenuissimo, filo della risposta di Siciliano, il 27.10.97 gli scrissi una seconda volta: la lettera, come c’era da aspettarsi, non ha avuto risposta. Ritengo utile pubblicarla (all. 7), anzi prego il lettore di prestarvi la massima attenzione, sia perché avrà un ruolo nel caso Vannucchi di cui diremo appresso, sia perché in essa viene per la prima volta adombrata una differenza essenziale, quella tra brevetto e progetto (vedi all. 9).

La videocassetta la mandai anche al Merano festival, un concorso per programmi televisivi, pregando di valutare il carattere innovativo e la funzionalità spettacolare senza tener conto della qualità tecnica e “artistica”. Fui escluso perché accettavano solo video in formato Betacam. Due anni dopo feci riversare il nastro nel formato richiesto (molto costoso) e mandai di nuovo il tutto. L’esclusione, stavolta, avvenne per livello artistico insufficiente!

 

7. La nascita del Sistema Gaeta (1998)

Il 20 gennaio del ‘98, all’Università, riuscii a parlare pochi minuti col sociologo Alberto Abruzzese, e gli lasciai il mio opuscolo AG 6 per un parere professionale. Poi notai, in una bacheca del corridoio, l’avviso di una conferenza sulla televisione e decisi di andarci, anche perché vi partecipavano Siciliano e Vannucchi[10].

A questa conferenza imparai molto circa la televisione generalista e tematica; apprezzai gli interventi di Vannucchi e Contu sul “terremoto tecnologico” in atto nei sistemi multimediali; venni a sapere di alcuni studi sulla televisione tridimensionale presentati dall’ing. Armando Chiari della Fondazione Bordoni (che mi interessarono a prescindere dalla mia invenzione). Siciliano, che avevo sperato di poter avvicinare, purtroppo non c’era perché proprio quel giorno si era dimesso dalla Presidenza Rai.

Al termine della conferenza consegnai una copia di AG 6 nelle mani di Contu e una in quelle di Vannucchi dicendo che il contenuto, perfettamente in linea con l’argomento dell’importante e riuscita conferenza, li avrebbe certo interessati.

Dopo qualche giorno mandai poche righe a Contu e ad Abruzzese dicendo che una recensione su Telèma avrebbe potuto essere un ottimo trampolino di lancio per il… microsatellite Bitnick. La risposta di Contu, stranamente, arrivò subito, via fax: un cortese rifiuto, perchè Telèma “non segnalava mai sperimentazioni prototipali”;  la risposta di Abruzzese, ugualmente negativa ma meno cortese, sono invece dovuto andare a prendermela di persona all’ufficio del professore, a Sociologia.

L’approccio successivo lo tentai con l’ing. Renato Petrioli, responsabile delle Tecnologie multimediali della Fondazione Ugo Bordoni. Questi mi rispose di non aver capito niente del funzionamento di quello che allora chiamavo Sistema T.I.E. (Televisione Interattiva Equivalente) e ciò mi portò a capire, non senza sconcerto e perplessità, che la mia invenzione era supersemplice e ovvia solo ai miei occhi.

Mi risolsi così a rimettere mano anche alla descrizione tecnica, nella quale, come già ricordato, l’interfaccia col nuovo programma Count-down continuava ad essere l’obsoleta ministazione telegrafica e non il microsatellite Bitnick. Il risultato fu un totale rinnovamento formale - a cominciare dal titolo divenuto Sistema Gaeta - di cui fui molto soddisfatto.

L’ing. Petrioli stavolta disse di aver capito, ma che comunque nei compiti istituzionali della Fondazione Bordoni non erano contemplati i “giochi” e quindi non era interessata né al brevetto, né alla sperimentazione del sistema o alla valutazione tecnica che io chiedevo.

Ricapitolando: né la descrizione spettacolare, né i prototipi, né la videocassetta, né la nuova descrizione tecnica erano serviti a suscitare interesse all’invenzione.

 

8. Il caso Vannucchi (1998)

Il Sistema Gaeta lo inviai, tra gli altri, agli ingg. Cruciatti (Mediaset), Chiari (Bordoni) e Vannucchi (Rai). Del primo non ho saputo nulla e non so neanche se Pellegrinato prima (§ 1.3) parlasse anche a suo nome, degli altri due dirò appresso.

Negli ultimi due anni ho avuto occasione, al Ministero delle Comunicazioni, dove ogni tanto vado per ricerche nella fornitissima biblioteca, di parlare della mia invenzione con il menzionato Chiari (§ 1.7). All’inizio sia lui che un tecnico suo collaboratore (al progetto 3DTV), pur avendo letto, capito e apprezzato le mie carte – così asserivano – non riuscivano a capacitarsi di come funzionasse “il ritorno” del segnale. Ci sono volute alcune animate discussioni[11] per convincerci – entrambi, si badi, perché è fuori discussione che l’ing. Chiari fosse in buona fede – che in realtà avevano solo creduto di aver letto e, soprattutto, capito. Un fenomeno analogo, anzi più macroscopico, si verificherà nel caso Frova (§ 1.10).

La risposta dell’ing. Vannucchi è arrivata con una telefonata, il 16.2.98, dell’ing. Tonio Di Stefano che mi informava, per incarico del suo capo, che avevano letto le mie carte e le avevano inviate alle Reti, perché “erano loro che reggevano le danze”. Malgrado i molteplici impegni si dichiarava comunque disponibile ad un incontro.

Il colloquio, molto deludente, ebbe luogo in Rai il 24.2.98. Io volevo entrare nei dettagli tecnici, parlare di prototipi, video dimostrativi, prove sperimentali, ecc., tutte cose che invece Di Stefano non recepiva, ritenendole, quanto meno, premature. Loro si, avevano lavorato a qualche sistema interattivo simile al mio, col ritorno via telefono, ma in generale le loro competenze erano “ben altre”. Lui la sua relazione interna (precisa: non tecnica) l’aveva fatta e non poteva certo rispondere dell’inerzia delle Reti, né, all’opposto, della disponibilità altrui (alludendo a Vannucchi).

Come Petrioli, Chiari, Frova e, con ogni probabilità, Vannucchi anche l’ing. Di Stefano era rimasto vittima di un abbaglio: aveva visto, o intravisto, un progetto più o meno interessante, ma aveva “svisto”, se mi si passa il termine, il brevetto che ne stava alla base[12]. La lettera del 26.2.98 la scrissi per avvertire di questo errore.

Nei due mesi successivi, esasperato dal silenzio generale, non potei fare altro che sollecitare con insistenza il Di Stefano, come si evince dalla lettera del 16.4.98  (e dalle note appostevi oggi), per ottenere dalla Rai una risposta scritta.

Quando la risposta (all. 11) finalmente arrivò replicai con altre 3 lettere (all. 12, all. 13 e all. 14), ma inutilmente. Il caso era chiuso, anche perché Vannucchi, da lì a poco, andò definitivamente[13] in pensione.

 

9. Pubblicazione su Internet (1999)

Alla Rai però, a causa della pertinacia - o incoscienza - che mi ritrovo, rimanevo aggrappato ad un altro, esilissimo filo: l’ing. Lorenzo Mucci, a cui ero stato dirottato dalla segreteria di Gamaleri, il Consigliere Rai a cui avevo scritto (§ 1.11).

Con Mucci avevo parlato al telefono un paio di volte, con l’impressione di avere a che fare con una persona competente, efficiente e disponibile all’approfondimento dei problemi. Malgrado le promesse non riuscivo ad incontrarlo e così il 5.10.98 gli scrissi una lettera. Interpellato per la risposta Mucci mi suggerì di rifare una (ennesima) domandina di partecipazione ai Cervelloni e lui, o Gamaleri, non ricordo bene, mi avrebbe senz’altro raccomandato. Invece non mi è arrivata nessuna chiamata[14] e l’ing. Mucci poi si è sempre sistematicamente negato al telefono.

Da quando, all’inizio degli anni ‘80, sono comparsi i personal computer, li ho sempre usati, e ho anche cercato di seguirne l’evoluzione. Lo sviluppo tecnologico però ha un ritmo tale che è difficile stargli dietro per chi non è più giovane, specie se, come nel mio caso, è distratto da altri e più importanti interessi culturali. Per questi motivi il mio computer, fino a poco tempo fa, era veramente e solo personal: in pratica una mia banca dati con i circa 4000 articoli (in particolare sulla storia delle comunicazioni elettriche) raccolti in 20 anni di ricerche bibliografiche.

 Nell’autunno del ’98, vincendo le resistenze che fino allora mi avevano frenato, decisi di imbarcarmi nella svolta – soprattutto psicologica, si badi – di Internet. Con un modem, l’aiuto di un giovane amico, il Dr. Carlo Masci, e soprattutto con lo studio di libri tecnici, “misi in rete” non solo il mio computer ma, per così dire, anche la mia mentalità e il mio modo di lavorare. Subentrarono subito altri problemi: la esasperante lentezza della navigazione, la frustrazione di trovare si una rivista non reperibile in Italia, ma di non poter accedere all’articolo che mi interessava, il frastornante eccesso di informazioni (che fa letteralmente girar la testa), ecc. I pregi comunque sopravanzavano i difetti: la stupefacente posta elettronica, i cataloghi on line delle principali biblioteche del mondo, i motori di ricerca, ecc.

Nell’autunno ’99, vincendo altre resistenze e, soprattutto, impegnandomi per oltre un mese a tempo pieno, compii un’altra svolta: l’attivazione di un mio spazio web, una cosa semplice e quasi naturale per i giovani, ma che per me ha comportato un dispendio notevole di energie: testi sulla creazione di siti, abbonamento Premium Tin, link ipertestuali, frame, perdite di tempo per pasticci hardware e software, ecc.

Il rischio di fare qualcosa di libresco (chi leggerebbe?) credo di averlo scampato, tuttavia il sito Count-down non ha certo una grafica accattivante e risulta disperso - sia pure non completamente perché raggiungibile (da tutto il mondo!) all’indirizzo www.bitnick.it o http://space.tin.it/televisione/andgaeta - nel mare, e tra il rumore, di Internet[15].

 

10. L’equivoco Frova (1999)

A questo punto è necessaria una parentesi per spiegare come ho conosciuto Andrea Frova, docente di chiara fama di Fisica.

Potrei dire che è stata una conoscenza “di riflesso”, principalmente perché ne incontrai il nome facendo una ricerca sulla prontezza di riflessi[16] in un CD Rom di Tuttoscienze. Gli telefonai e Frova cortesemente mi diede i chiarimenti richiesti; dopo qualche tempo gli scrissi una lettera[17] per altre informazioni, allegando, a titolo di referenza, come esplicitamente dichiarato, l’opuscolo AG 6. Anche in questo caso il professore mi fornì utili indicazioni, senza che nessuno di noi due accennasse, nel corso della conversazione telefonica, alla mia invenzione.

Quando, due anni dopo, pubblicai il sito cercai ovviamente di pubblicizzarlo il più possibile (tramite email, telefonate e posta tradizionale) con la speranza, sempre più fievole, di interessare qualcuno al brevetto. Tra i destinatari della segnalazione c’era ovviamente Frova, il quale, a tutt’oggi, è stato praticamente l’unico a darmi un parere scritto sul Bitnick (v. all. 17). In tale giudizio però c’è una svista madornale.

Ho cercato – e con questo breve paragrafo sto tentando di farlo ancora di più – di dare una particolare risonanza all’equivoco di Frova, non certo per sollevare un casus belli, che sarebbe sterile e irriguardoso verso l’illustre docente, per il quale non posso che nutrire stima e gratitudine, ma per utilizzare questo “incidente” come esempio eclatante – e soprattutto didattico – di fenomeni di illusione percettiva.

Per inoltrarci nei labirinti della psiche occorre però rimuovere, e se possibile estirpare alle radici, i pregiudizi che vi si annidano e che fuorviano dalla obbiettiva valutazione dei fatti. A tal uopo credo sia sufficiente leggere, ma con un’attenzione particolare, la lettera di risposta (all.18) che ho ritenuto di inviare al Frova, proprio per sgomberare il campo dai malintesi, e avvertirlo altresì delle mie intenzioni.

Frova, in risposta, e troncando la discussione, confessava di capire sempre meno (“eccetto la mia ombrosità”) e non mi ha quindi dato la possibilità né di ribattere che i “misteri linguistici” accennati nella mia lettera non riguardavano affatto un banale “non saper leggere”, né di aggiungere, come ulteriore pezza d’appoggio alle mie tesi, che prima di lui almeno 6 fior di ingegneri (il suo collega, Petrioli, Vannucchi, Chiari, Di Stefano e Costardi) erano incappati in “errori di lettura” simili al suo!

La “psicologia dell’illusione” a base del funzionamento del Sistema Gaeta ha funzionato anche dove non era previsto che funzionasse, andando addirittura oltre le intenzioni dell’autore! Ma il tema è complesso: cercheremo di aggiungere qualche altra riflessione, sul “fenomeno lingua” in generale, nelle pagine successive.

 

11. Il caso Gamaleri (1999)

Il Sistema Gaeta l’ho mandato ad almeno tre dirigenze Rai. L’ultima offerta del brevetto l’ho fatta al consiglio di amministrazione attuale, investito nel febbraio ’98, e del quale fa parte Gianpiero Gamaleri, illustre docente di Comunicazioni di massa.

Questa nomina mi sembrò di buon augurio sia perché conoscevo e apprezzavo i lavori di Gamaleri su McLuhan, sia soprattutto perché avevo avuto con lui, nell’89, un colloquio, breve ma sufficiente a evidenziarmene il valore e la competenza[18]. Così, fiducioso, gli mandai (7.2.98) le mie carte, accompagnate da poche righe:

 

          Professor Gamaleri,

ripresento a Lei - e a tutto il nuovo CdA della RAI - la Televisione Interattiva Equivalente da me inventata, con la speranza che, dopo 4 anni di totale silenzio, possa finalmente essere valutata.

I seguenti allegati, solo che si leggano (tutti), dovrebbero valere più di qualsiasi raccomandazione: Attestato di brevetto; Opuscolo Count-down; Funzionamento Tecnico; Appunti vari[19].

 

A quell’epoca la mia “scoperta” dei due livelli della lettura (v. § 2.2) era ancora lontana e il mio atteggiamento non poteva essere che quello dell’uomo della strada, cioè quello di dare la colpa ai giochi di potere e al fatto di essere fuori “dal giro”.

Gamaleri non mi ha risposto. Ma com’era possibile che nessuno rispondeva? Nessuno leggeva? Nessuno capiva? Erano tutti cretini, tutti mafiosi, tutti corrotti? Gradatamente la mia mentalità scientifica mi portò a vedere in tutto questo niente altro che un “fenomeno”, cioè qualcosa retto da leggi precise, finchè il “caso Frova”, e naturalmente tutta l’esperienza fatta, non mi fecero imboccare la strada giusta. La lettera a De Mauro - ma dichiaratamente indirizzata, si badi, proprio a Gamaleri - che qui pubblico (v. all. 20) è sintomatica di questo cambiamento di rotta.

Ma “colpire nel segno”, come mi augurava Frova, è molto difficile: credo di averlo sperimentato come pochi e sulla mia pelle. Quando si tratta di comunicazioni familiari bene o male tutti gli alfabetizzati riescono a scrivere e a farsi capire, ma per comunicazioni inusuali occorre aggiustare di più il tiro e questo significa che per raggiungere l’obbiettivo, cioè la comunicazione efficiente, il consensus, la vera “trasmissione del pensiero” a gente che non si conosce, occorre scegliere ancora meglio e pesare ancora di più le parole da usare. Per riuscire cioè veramente a scrivere, occorre carpire quel “segreto” delle “due scritture” che fa da premessa e da contraltare al suo omologo delle due letture, di cui diremo al capitolo seguente.

 



[1] Questi studi li avevo iniziati nel ‘93, per il contributo decisivo che il morse fonetico portava a questioni linguistiche di importanza capitale.

[2] La genesi di quest’idea è dovuta forse alla frequentazione de “La legge del tempo” di Gabriele Buccola.

[3] F. Banissoni, Le invenzioni come problema psicologico. Archivio di psicologia, neurologia, psichiatria e psicoterapia, 1939/40.

[4] Tra l’altro senza alcun rimborso spese.

[5] Si trattava di quello fotografato nella copertina di AG 6: una sfera di plastica trasparente (presa al bar con 500 lire da una macchinetta distributrice di sorprese e chewing gum) con dentro un po’ di elettronica di recupero, unicamente per far scena. Infatti avrei potuto costruire un Bitnick, un hardware funzionante, ma non certo la sua controparte software, cioè non potevo “inventarmi” o mettere su di sana pianta e da solo un programma televisivo in piena regola come Count-down!

[6] Questo provino (che mi piacerebbe poter vedere) sarà in qualche archivio Rai.

[7] Il lettore interessato può trovare altri particolari in all. 4 e all. 5.

[8] È stato mio figlio, per primo, a notare questo particolare.

[9] Infatti Count-down e Bitnick possono pensarsi come una sorta di test di tempi di reazione di buccoliana memoria. Aggiungo anche un’osservazione importante: tutti, nel rispondere, non muovevano il solo dito, ma l’intero braccio, come se, per così dire, sparassero la risposta verso il teleschermo.

[10] Il tema era Televisione: crisi o rinascita? Si teneva il giorno successivo allo Stenditoio San Michele a Ripa ed era organizzata dalla rivista (allora per me ignota) Telèma, diretta da Ignazio Contu.

[11] Ne ricordo una in particolare, la sera del 18.2.98, in macchina dall’Eur a S. Giovanni: per me fu una rivelazione sugli scherzi della psiche umana!

[12] A riprova che Di Stefano non era mai entrato nel merito dell’invenzione posso aggiungere che quando lo avvertii del sito web, ebbe a ricordarsi del Bitnick come qualcosa per fare sondaggi o contare fagioli!

[13] Il Vannucchi dopo il pensionamento, contemporaneo, credo, a quello dell’ing. Costardi, era rientrato in Rai per un breve periodo

[14] Anche dalla Missori, quella che voleva i prototipi (v. § 1.4), non ho saputo più nulla.

[15] Il sito è in rete dal 16.10.1999, ma nessuno lo ha visto per caso o se ne è incuriosito tanto da scrivermi.

[16] Questi miei interessi culturali, che hanno preso avvio dai lavori di estesiometria tattile di Buccola, non sono estranei all’invenzione di cui trattiamo. Un brevissimo cenno si trova nella pagina web “Il Bitnick è ergonomico”.

[17] La lettera è importante a prescindere dal “caso Frova”. Il libro da tradurre era Die Shall-und Tonstärken und das Schalleitungsvermöven di K. Vierordt, il maestro di Gabriele Buccola.

[18] A Gamaleri, a cui ero stato raccomandato dal prof. Renzo Titone, avevo mostrato il Sound Trainer, un’altra mia invenzione, sugli audiogiochi e sulla “radio interattiva”. La mia impressione era stata positiva anche per un fatto marginale, e cioè che al professore non era ignoto il nome di Mario Lucidi. Ovviamente la faccenda del Sound Trainer non ebbe alcun seguito.

[19] Questi appunti, continuamente rimaneggiati, sono ora confluiti in queste mie pagine web.