68 – Estetica e Fonetica

      

 

 

Chiarissimo De Mauro e cari amici accademici,

incollo in calce (e allego anche in formato Word) i primi due capitoli introduttivi del mio ultimo Atomo, ancora inedito, dal titolo definitivo: Il segno tecnificato. L’iposema di Lucidi.

Vi pregherei di leggerli con attenzione e indi farmi cortesemente sapere se:

1) siete disposti a revisionarmi l’intero opuscolo (12 capitoli di due pagine ciascuno);

2) siete disposti, eventualmente, a scrivermene una breve presentazione (massimo una pagina);

3) potete mettermi in contatto o “presentarmi” a qualche editore che possa valorizzare l’opera.

Ringrazio molto. Cordialmente. Gaeta

 

 

1. La metrica di D’Annunzio

Questo fabbro sta “telegrafando” o, forse, sta “suonando” l’incudine. In entrambi i casi le note fondamentali o i “mattoni” delle sue composizioni sono costituiti dagli unici due possibili tipi di battuta del martello: il colpo leggero o elastico e il colpo forte, a cui corrispondono rispettivamente suoni musicali e rumori smorzati.

Le onde concentriche del disegno rappresentano la trasmissione Morse della lettera  A ( • ▬ ) e della lettera W ( • ▬ ▬ ) e poiché la telelinguistica insegna che i punti sono caratterizzati da pendolarità e le linee da pressività, i primi sono raffigurati con cerchi nitidi, le seconde con “sciami” nebulosi. Un altro modo, forse più intuitivo, di rappresentazione può essere quello adottato nella mia “firma” in Morse in calce alla Lucidi News 66 in cui preannunciavo il presente lavoro1.

“Segnali a martello” infatti, come ricorda l’Avé-Lallemant (vedi Morse News 42), prosperarono sin dai primordi del Morse: nelle borgate piene di officine artigiane e di maniscalchi le notizie si diffondevano velocemente col linguaggio dei colpi, tanto che per combattere il fenomeno dell’Hakesen si dovettero costruire carceri speciali.

Anche leggendo i lavori, per esempio del Fraisse, sulla “psicologia del ritmo” si apprende che il martello si può battere con maestria alternando colpi principali a colpi più leggeri e facendogli suonare o “cantare” musicalissimi dattili o anapesti.

Ma il contributo più decisivo e più “tecnico” su questo soggetto, io credo, viene da quell’attento ricercatore della complicatissima macchina animale che fu il Pieraccini. Studiando le “palate” dei sterratori, le “picconate” degli spaccapietre, le “movenze” del sistema mano-braccio-tronco dei muratori che usano la cazzuola, ecc. scoprì che esistono veri e propri “stili”, e vere e proprie “scuole” di esecuzione di tali lavori. Non solo il ritmo, la cadenza, il movimento pendolare dinamicamente equilibrato riducono, com’è noto, lo sforzo fisico, ma attenuano anche il senso della fatica psicologica. Il frazionamento delle parti è poi vantaggioso alla presa dell’utensile, come gli anelli piccoli di una catena, come ben sanno gli idraulici, possono sbloccare un tubo molto meglio della semplice chiave inglese o del “pappagallo”. Mostrami come imbracci il manico della pala e ti dirò quanto sarai stanco a fine giornata!

La varietà dei movimenti articolatori dell’uomo che lavora, e la sua stessa sensibilità muscolare, è anche tradita, per un orecchio allenato, dalla gamma dei suoni prodotti. Fammi “sentire” i rumori della tua ascia e ti dirò se sei un bravo boscaiolo! Fammi sentire il colpo di “assaggio”, o il “mezzo colpo” quando inizi a picconare e ti dirò di quale paese sei! Dalla differenza di suono si avverte, ovviamente, anche la natura e la resistenza, ad esempio, del tronco di abete percosso della “penna” di una scure.

Ma il martellare è musica anche per Platone, che ascolta i suoni dal maniscalco; per Verdi, che inserisce l’incudine nella partitura de La forza del destino; per Wagner; per Carducci che paragona il poeta al fabbro; e, specialmente, per D’Annunzio.

Il 17 aprile 1982 ebbi il privilegio di una cordialissima e lunga conversazione con Vasco Ronchi, nella sua bella casa di Arcetri (vedi Morse News 36). In salotto, sotto una teca di vetro, faceva bella mostra di sé una copia di un libro di D’Annunzio, mi pare Le faville del maglio (Eufrosine), con dedica autografa dell’autore, non ricordo se al professor Ronchi, a Curzio Malaparte o alla sorella di quest’ultimo, moglie del Ronchi.

Ricordo benissimo però che la dedica, brevissima, citava “i suoni brevi del martello e i suoni lunghi dell’incudine e che la cosa mi colpì molto, essendo già interessato, a quei tempi, agli studi prosodici (vedi AG 13). Naturalmente allora, e per molti anni, non capii il senso di quelle sibilline parole e neanche Ronchi, del resto, fu in grado di aiutarmi. Certo, incudine e martello, grazie al ferro metallurgicamente cementato, hanno l’interno per così dire “elastico” e producono rumori o suoni “argentini”, ma chi suona o “risuona”, l’incudine o il martello? E perché poi la prima darebbe suoni metricamente lunghi e il secondo metricamente brevi? E, soprattutto, cosa significa suono breve e cosa significa suono lungo?

La telelinguistica, oggi, ha dato esaustive risposte a queste domande.

 

2. Estetica e Fonetica

Questo era il titolo inizialmente previsto per questo Atomo, dopo il ritorno di fiamma per la filosofia seguito alla scoperta del libro di Kittler di cui riproduco la copertina (da internet). Pur non leggendo il tedesco, ma attratto, un po’ come Buccola, dalla cultura germanica e, nella fattispecie, dalle illustrazioni di questo libro, ho voluto approfondire, anche se ciò mi è costato uno sforzo esegetico particolare.

Aiutandomi con una traduzione inglese, ridotta o rifacimento parziale2, ho ritrovato le teorie di McLuhan (gli strumenti del comunicare, l’uomo tipografico, il medium è messaggio, la costellazione o galassia Gutemberg, ecc.) di cui mi ero nutrito negli anni verdi e che il massmediologo e docente di estetica Kittler ha sapientemente ripreso con argomenti e con linguaggio adatti alle mie umili corde di “tecnico”.

Accanto agli altri autori e argomenti classici, o semplicemente di moda, e che devo purtroppo limitarmi ad elencare alla rinfusa (strutturalismo, Marx, Marcuse, Wiener, Saussure, Freud, Mallarmè, Rilke, grammatologia, Derrida, Hegel, rivoluzione industriale, Arnheim, Lacan, Foucault, Ong, Leroi-Gourhan, Baudrillard, Goethe, riproduzione meccanica e arte, Benjamin, ecc.) Kittler dà ampio e insolito spazio ad argomenti a me più congeniali (microfono di Hughes, telefono di Bell, vocoder, meccanica locomotoria di Mayer, Edison, psicologia sperimentale, manoscrittura, prensilità, Taine, Vogt, ecc.), ma soprattutto al fonografo di Guyau (vedi cap. 3), alla macchina da scrivere di Heidegger (vedi cap. 4) e a Nietzsche.

Nietzsche, com’è noto, a causa dei suoi malanni – emicrania, quasi cieco da un occhio, zoppo – dovette lasciare la cattedra di Basilea e trasferirsi a Genova. Qui,  primo filosofo “meccanizzato”, fu costretto a servirsi di una macchina da scrivere che lo trasformò quasi in automa, fino a quando la typewriter gli si ruppe, per l’umidità di certi acquazzoni, ed egli “tornò ad essere un uomo3. Intanto però aveva scoperto che i nostri strumenti di scrittura lavorano anche sui nostri pensieri.

Cercando di schematizzare questa magnifica scoperta possiamo dire che la società subisce due distinte alfabetizzazioni: quella della scrittura mano, ma della relativa lettura stentata, spesso pubblica e ad alta voce; e quella della scrittura a macchina e della relativa lettura veloce, e spessissimo silente e personale. Colla prima, cioè coll’istruzione obbligatoria, si scopre che si possono “tritare lettere senza sforzo, risparmiando gli organi vocali”, pur conservando l’alfabetizzato la sua individualità nell’esteriorità del flusso continuo di inchiostro e lettere4. Con la macchina da scrivere, poi, la scrittura o battuta diventa cieca, gli occhi lavorano solo in lettura e, soprattutto, nasce una del tutto nuova abitudine alla parola scritta e stampata, perché composizione e, per così dire, “pubblicazione” si fondono insieme.

Per naturalizzare la comunicazione, osserva Kittler, dalla scrittura fu tolto lo sforzo e dalla lettura fu eliminato il suono. Così, però, la scrittura non è più una naturale estensione del pensiero, perché comporre e dettare alla macchina, che sforna parole con flusso ininterrotto e inexpensive, diventa di fatto la stessa cosa. La typewriter dunque, inaugurando l’era della “riproduzione di massa”, tolse sì agli uomini la penna d’oca e alle donne – la valanga delle segretarie! – l’uncinetto, però al prezzo di un ben maggiore rischio di desemantizzazione del messaggio.

Mi affretto a chiudere questa mia indebita e fugacissima invasione dei territori dell’estetica con un omaggio a Silvio Ceccato, il famoso autore de La fabbrica del bello e L’ingegneria della felicità5. Come questi preferisco qualificarmi e rimanere soltanto “un tecnico tra i filosofi”, anzi tra i linguisti e tra gli psicologi.

 

Intervento di Gaeta (14.9.05):

Finora ho avuto due riscontri cortesi (Pigliacampo e Bertinetto) e uno alquanto evasivo (Gambarara).

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