Interviste[1] su Mario Lucidi a:

 

Virginia Ascioni

Bruna Ballarani

Italo Barducci

Alessandro Bausani

Marisa Bausani

Walter Belardi

Antonino Buratti

Giorgio Raimondo Cardona

Mario Carpitella

Angela Ciufoli

Michele Coccia

Giuliana Corneli

Marcello Corradini

Gaetano Corsini

Italo Cubeddu

Laura D’Angelo

Giovanni D’Anna

Rita D’Avino

Tullio De Mauro

Luciana Di Lello

Mario Di Rienzo

Pio Filippani Ronconi

Nino Fiorentino

Daniele Gambarara

Anna Lucidi

Flavia Lucidi

Maria Teresa Lucidi

Maria Teresa Maggi

Anna Morpurgo

Abdul Hamid Naimi

Oscar Panicali

Maria Teresa Paroli

Luigi Santa Maria

Roberto Vacca

 

 

 

 

Ascioni, Virginia (9.10.85; 31.10.85; 15.11.85; 26.11.85; 27.3.86; 10.6.86; 24.3.87)

 

Mario era un carissimo amico. Che cosa bella che lei stia riprendendo i suoi studi!  Che peccato che nessuno abbia capito la genialità di Mario! Se potessi dare una bricioletta, ma temo che la mia testa non sia più...[2] Non potrò essere all'altezza, molte cose le ho dimenticate. Dalla sua voce capisco che la posso considerare con amicizia. Ho studiato violino a Santa Cecilia con Zuccarini. Ho un dono di natura, un orecchio eccessivo, per sentire le sfumature. Il mio rapporto con Mario è stato del tutto singolare: ero soggiogata e gli ubbidivo, ma sia i miei che la madre e la cognata di Mario ci ostacolavano. Mario era pacioccone[3], generoso e altruista. Durante il lavoro mi stancavo, lui mi rimproverava di non essere abbastanza attenta, presa, ma poi mi portava a mangiare la pizza o nei migliori caffè. Pensi se ci incontravamo adesso io e Mario, in questa età matura mia, che peccato...

Le faccio ascoltare le registrazioni dei suoi antichi esperimenti con Mario, ma non le suscitano né ricordi né emozioni. Decido allora di sottoporle ex novo le frasi-test, per così dire, di Lucidi (Che turno hai/fai? Di notte; Non capisco una frase; il passero vola; il bambino s’impaurì; Spera spera; zero-uno-due; tredici medici / sedici medici; ecc., v. bibliogr.) che riesce ad analizzare così come tantissimi anni fa era stata abituata da Mario. Per ovvi motivi posso riportare, e in modo purtroppo molto disorganico, solo alcune delle sue riflessioni sui molti esperimenti fatti.

Nota benissimo la differenza in "notte" e parla di lunghezza; la "o" è trascinata dalla domanda. Poi dice che è importante l'INTERESSE che si mette nelle parole: ad esempio in "non capisco una frase" c'è il senso di fastidio; invece in "non capisco una parola" si insiste su "pisco". A seconda del tono cambia il senso. Che cosa fanno? Corrono! Frasi fredde, lineari, falsate (senza interesse) di contro a parole "vere" come "il nostro canto ARRIVA (= è la verità!) al Signore". Lei si crea la scena nella mente come le insegnava Mario. Il passero vola può essere detto come una "notizia" oppure come cosa  importante (è quel passero che vola). Importanza dei "piani", dei livelli, dei gesti e - forse - delle note musicali.

Il passero vola, il pesce guizza, l'azione dell'animale si dice con sveltezza/legato: non è troncato per niente (vola, guizza): è unito; ma se mi riferisco al passerotto malconcio: il passero vo-la (va sul "vo"), io penso che questo lo penseranno tutti.

I fratelli hanno ucciso i fratelli: non vorrei essere suggestionata, deve cambiare il senso... Allora il bambino/cavallo si impaurì e si mise a correre: cambia il tono  del "s'impaurì", va su, in una tonalità più alta nel caso del cavallo; a me mi va più su, non lo capisco perché. Allora l'asino si impaurì: non posso dare importanza a questo..., possibile? Col cavallo vado su, lei lo sente? Vediamo ora pensando  all'asino: voglio cercare di mandarlo su nell'intonazione del cavallo, per vedere se mi ci va: no, è forzata, non ci va: non lo so, forse l'asino rimane una tonalità a mezz'asta, diciamo così, come se quello fosse un DO e l'altro fosse un LA (quello del cavallo). Non vorrei che mi lascio suggestionare... Quando sarò sola lo dirò; la differenza tra animali e persone .. è strano, è  strano ed interessante.

Spera spera: quel cervello (di Mario) cosa andava a pensare..., che continuo mulino che aveva dentro quella testa... Se la frase non finisce si deve capire lo stesso, questo lo sentiamo pure noi. Il verbo ha una tonalità più bassa, più legata,  più unito: non può essere il cognome. Certo, i verbi si pronunciano in modo diverso dai nomi. L'“importanza” si nota anche quando si legge (freddino) perché nelle parole,  nei verbi c'è tutto... Mi diceva: l’importante è pensare tuttounverbo. Si riferiva al fatto dell'intonazione e questo significa che il verbo si può dire tutto corrente, tutto unito, tutto grigio, e questo vale sia per i verbi sia per le parole. Se lui fosse qui gli direi: senti, adesso stai zitto tu, adesso parlo io; tutto un verbo, tutto di filato, come un treno, ossia senza alti e bassi, senza ondulature: a seconda di come si danno queste ondulazioni cambia il senso della parola. Il verbo è tuttounito perché tutto uniforme,  quando uno lo dice che si sbriga, che deve essere conciso, che lo deve dire tutto, tutto di filato senza fermarsi, sempre con la stessa intonazione;  quando invece ci sono ondulazioni e si va su/giù il senso cambia (e così nelle parole). Io credo che la sua idea era questa... invece forse io stavo distratta e allora come li dicevo li dicevo; certo se camminavamo insieme eravamo  arrivati a qualcosa di costruttivo. Che delitto che hanno fatto se c'erano i nastri e li hanno buttati... Perché Mario ha scritto così poco?

Zero - uno - due - tre - quattro - cinque : il quattro se ne è andato su per conto suo, in alto. Tredici medici / sedici medici: non lo voglio fare apposta, non mi voglio suggestionare... sedicimedici mi si unisce tutta insieme. Per fare un confronto bisogna dare lo stesso tono generale alle due frasi (ad  esempio: stupore) oppure dette piene senza particolare espressione. Dopo averle ripetute quasi bisbigliate:  si, il tono mi è  cambiato, certo che è cambiato, mi cambia.. tredici medici mi pare che venga  più lineare, frase tutta uniforme, tutta su una tonalità, tutta unita, come  tutta una parola: "mihannovisitatotredicimedici"; attenzione a non dare la  sfumatura di significato “16 medici e pure di più”. Bisogna stare attenti a fare mente locale, come diceva lui, a riflettere bene, dirlo con lo stesso tono, perché se no non ha valore. Ho inteso che c'è qualche cosa, bisogna afferrarlo. Sedici mi sale, mi va più su, con un'altra tonalità e si stacca da medici;  mentre l'altro è tutto su una tonalità, uniforme, lineare, mi sembra...   

Dopo qualche mese mi telefona dicendo di aver trovato un quaderno con degli esercizi di suo pugno, scritti sotto dettatura di Mario. Anche con questi facciamo esperimenti, ma ne parlerò in un prossimo fascicolo degli Atomi.

Un giorno mi lesse questo brano di una vecchia lettera della sorella Renata:

“Non devi avere alcun rimorso di non essergli stata abbastanza vicina o di non  aver fatto abbastanza per il suo lavoro. Tu gli hai dato per anni la gioia della tua bellezza, della tua tenerezza, della tua compagnia. Voi sarete, come diceva quel libro del quale non ricordo il titolo, sposi senza nozze, uniti non col corpo, ma con lo spirito, così come si uniscono le palme nel deserto, non con le radici ma con la chioma, come si uniscono gli astri del firmamento, non con la materia ma con la luce”. E' poetico, è bello...

Facciamo molti esperimenti sui numeri, del tipo morra (v. De Rienzo, più avanti).  I suoi ricordi sono vaghissimi, anzi assenti del tutto. La sensibilità percettiva però, al solito, e compatibilmente con la sua non giovane età, le è rimasta. Dicendo "tre" mentre si butta un altro numero, non quello equivalente alle dita della mano, le sembra, dice, che il tono “vada su”. Risultati più positivi forse li raggiungiamo con le parole/menzogna: nominare un oggetto presente o meno nella stanza dove ci troviamo (uso le parole “bottiglia” e “bilancia”).

Come valore di parola io rimango confusa perché ESTENSO ci viene in mente di dire che è una cosa che si prolunga e ha poco valore; INTENSO è una cosa che ha più valore... Senz'altro l'estenso è quello più morbido, sono sicura. Adesso mi veniva  il dubbio: ma come sarebbe, se è estenso si diluisce, finisce il valore, non  ha più la sua intensità. E invece quell'altro (quello non vero) anche in queste cose è più concentrato, più "chiuso", più troncato,  più... come si può dire? non vorrei  sbagliare... non può venire dal mio cervello un "giudizio" così. Come significato di parola, mamma mia... il suo cervello, il cervello di Mario... il giudizio staccato dall'intenso sembra giusto. Certo... più  importante è quello estenso..., è diluito ma è più importante; però quando lei lo mette in confronto con la parola “intenso”, uno dice: allora è più importante quell'altro, ... più forte, più concentrato.

Non mi ingarbugli, pensi bene, giusto quello che deve pensare, io poverella come faccio? Bottiglia, dichiarando di non pensarci e poi ancora bottiglia dichiarando di pensarci. Lo sento che c'è la differenza nel "ti",  nel primo caso non ha valore il "ti", quando non ci pensa, è intensa, non è prolungata. Per esempio, se io ci dovessi pensare farei "botttiglia", se io la guardo e dico bottiglia ...iglia; invece se sto pensando ad un'altra cosa "bottiglia" concisa, magari più marcata, più chiusa, come avevo detto prima.  Si autodomanda e risponde: Quella che cos’è? Bottiglia.

Ma non può dare estremo valore alle mie parole. Io sentendo col mio orecchio soprattutto, perché io adesso questo fatto dell'intensa me la sento così bene per conto mio perché se dico... "bilancia", ma guardo a quello là, e penso a quello, allora  non ha valore "ancia". "Bilancia": è più forte, si sbriga di più, in modo che  chiude, conci(so), tirato via, mi sembra, quasi affrettato. Mario mi perdoni, non lo so se è così.

 

Ballarani, Bruna (15.1.86)

Suo padre si era rivolto ad un professore sacerdote per delle ripetizioni private di matematica alla figlia e questi aveva presentato, come un mostro, il giovane laureando Mario Lucidi. Nella loro cerchia c'era più che altro Raul, il più piccolo dei tre fratelli Lucidi, che era anche lui matricola. Anche Raul vedeva male, ma chi era stato più colpito era Mario: non solo non vedeva bene, ma aveva un occhio proprio bianco. La natura però aveva compensato questa infelicità con l’eccezionale intelligenza. Mario era amico di Margherita Guarducci e di una coppia di studenti che poi si sono sposati e hanno pubblicato parecchi libri: i Giomini[4]. Loro potrebbero dirmi molte cose. Qualche volta con loro, qualche volta da solo Mario veniva alle audizioni all'Adriano. Anche durante i primi anni del suo insegnamento non ebbe più contatti con lui, ma con Raul perché facevano la stessa trafila di concorsi per l'abilitazione e per la cattedra. Si ricorda così bene, malgrado 50 anni, proprio perché Mario era un "mostro": aveva una andatura sbilenca, forse per la scoliosi di tutti quelli che stanno molto tempo a tavolino. Era molto attratto dalle donne, e non si stupisce del suo successo perché si dimenticava la sua menomazione di fronte al fascino che emanava da questa personalità così ricca interiormente, con una capacità poi di immagazzinare, una memoria straordinaria. La sua cultura era senza limiti perché spaziava dal ramo classico a quello scientifico. Almeno ai suoi occhi di ragazzina non c'era argomento che ignorava: un pozzo di scienza, una intelligenza prodigiosa. Non si ricorda di esperimenti fonetici. L'unica pupilla da cui riusciva a vedere le immagini era mobilissima e tuttavia lui fissando una persona riusciva a delineare, a dire: "Lei è fatta così....". Lei non riusciva a persuadersi come potesse fare. Per il concorso a cattedre invece prese delle lezioni da Walter. Raul ottenne un posto alla radio come speaker di rumeno, grazie al prof. Isopescu. Un giorno d'estate era al mare e aprendo il giornale vide il necrologio di Mario. Non molto tempo dopo allo stesso modo seppe della morte di Raul.

 

Barducci, Italo (4.12.85)

Dice di ricordare Mario Lucidi, quasi cieco (a proposito delle voci dell'Amazzonia). Gli sembra di vederne la fisionomia. Forse stavano a piazzale delle Scienze ed era presente Piero Bordoni[5], il figlio di Ugo, o l’ing. Manfredi..., che però si mostrava più scettico di lui. Indi mi racconta cose molto interessanti, ma quasi certamente non riguardanti Lucidi (la precisione dei ritmi degli Indios, gli studi di Gemelli, la distorsione di fase, analfabeti che conoscevano mezzo Orlando Furioso a memoria, gli studi statistici sulle formanti, ecc.).

 

Bausani, Alessandro[6]  (1.3.85)

Dava ripetizioni di matematica nella scuola di Walter Lucidi. Mario, al contrario di lui che a volte non riesce a trovare una citazione, aveva una memoria fuori dal comune e si interessava di mnemotecnica, sapeva scrivere e leggere con lente di ingrandimento. Lui più che leggergli gli traduceva dal tedesco; gli amici lo ritenevano molto intelligente, ma anche un "fissato", uno strambo. Ricorda, chissà perché, i diversi modi di pronunciare la località Madonna Nicola (all'Argentario). Chiedeva spesso: "Come si dice tale numero in persiano, in ebraico, ecc." e pare che le opposizioni fonetiche c'erano anche in quelle lingue. Scherzavano sempre su: "Come lo hai pronunciato 33 ?". Usava per esperimenti la nipote Flavia. Lucidi era un pomicione e non aveva molta stima degli orientalisti.

 

Bausani, Marisa (23.3.85)

Lo frequentò soprattutto negli anni 40, insegnò anche nella scuola di Walter e di Raul. Abitava in via Borghi, al colle Oppio, nello stesso palazzo dei Vacca. Lucidi veniva e gli faceva piacere farsi leggere poesie. Ricorda qualche discussione tra Foscolo e Leopardi, sui sempiterni calli... Con Sandro si divertivano con frasi ambigue come "mi camuffo" (mica m’uffo!). Era burlone, allegro, molto simpatico. La signora Vacca, ancora viva (circa 94 anni), si ricorda tutto. Era un po’ storpio e goffo, piegato su un fianco, la spina dorsale storta, camminava come un orso, anche se non era un orso. Catalogava Sandro come irresponsabile. Degli esperimenti coi numeri non ricorda niente. Faceva il gioco del 15. Forse parlavano anche di musica gregoriana e medioevale, su quando vi fu il passaggio dalla metrica quantitativa a quella accentuativa.

 

Belardi, Walter (24.2.84; 22.4.85)

Pubblicò tutto ciò che riuscì a decifrare, e non ha più niente (manoscritti, nastri). Nessuno si è più occupato di Lucidi. Alla mia domanda se c'era qualche altro lavoro di Lucidi, risponde che c'è il saggio su Cavalcanti. Gli faccio notare che nel libro in onore di Lucidi da lui curato nel 1966 c’è il saggio “Ancora sul disdegno di Guido”. Stupito, risponde che gli sembrava di non averlo pubblicato perché Pagliaro non voleva[7].

Non ha mai utilizzato nastri. Gli sono stati dati dei fogli, non ricorda da chi, e li ha molto corretti, e con moltissima fatica, nella forma; intere righe saltate. Ha una copia della tesi di laurea sul gioco iranico degli scacchi, che fu utilizzata anche da Pagliaro. In un prossimo libro in memoria di Pagliaro forse ne parlerà. Accenna alla correptio giambica in Plauto. I "riccioletti" erano metafore visive per far capire agli altri come egli intendeva la circolarità delle vocali. Ricorda gli estenuanti lavori di  sfrondatura del saggio sull'accento persiano compiuti assieme e per conto di Lucidi, perché Pagliaro lo aveva giudicato troppo lungo per essere  pubblicato. Quando, nel ‘66, riunì gli scritti di Lucidi, Pagliaro si sorprese che avesse scritto tanto, infatti gli rimproverava, e aspramente, di non pubblicare niente. Negli ultimi tempi tra Lucidi e Pagliaro c’erano contrasti, gelosie tra cattedratici. Lo considera un maestro, come Pagliaro. L’accento di Lucidi era prettamente romanesco, era una pasta d'uomo e ingenuo. Era donnaiolo, diceva che la sessualità l'aveva rovinato. Dice che si commuoverebbe ad ascoltare i nastri di Lucidi. Le vocali non le percepiamo per abitudine psicologica; concorda che i  prosodemi si avvertirebbero se se ne avesse la consapevolezza, ma essi variano nel tempo e nello spazio enormemente. Quando ribatto che Lucidi ne trovò delle costanti risponde che alla tensività non ha mai fatto molto affidamento. Mi disegna un triangolo delle vocali in cui vi sono infiniti gradi di apertura; mi parla del sonograph, ma io dico che la  discriminazione dovrebbe essere netta, alla Lucidi; accenno anche all'irrisolto problema della quantità. Non gli risulta che alcuno abbia scritto su Lucidi.              I linguisti internazionali ignorano l'italiano. Accenno ad alcune frasi analizzate da Lucidi. Mi parla del "calare" delle vocali. Ogni lingua e dialetto si comporta in maniera diversissima.

 

Buratti, Antonino (29.5.85)

Ha conosciuto molto bene Mario, come Italo Cubeddu. Lucidi è stato suo professore di matematica e fisica (la glottologia l’insegnava all'Università). Lucidi aveva anticipato l'epoca moderna perché lavorava moltissimo con i registratori magnetici. Sul pensiero scientifico di Mario non può essermi utile, ma casualmente ha parlato con il suo amico Fiorentino che si ricorda tutta la polemica che Lucidi ha fatto con De Saussure (cosa che lui non sapeva). Nel ‘43 smise di studiare dopo il diploma ginnasiale, ma nel ‘45 decise di riprendere gli studi e tramite comuni amici venne a sapere di questi professori molto seri, che davano lezioni private nella loro casa di via Poliziano. La prima "scuola" vera e propria, l’Istituto Lucidi, con banchi e presidenza, la fecero a via Aosta e poi la trasferirono a S. Giovanni in Laterano. Walter faceva le materie letterarie, Mario matematica e fisica - che poi era un genio anche a glottologia è un altro discorso... Filosofia la faceva Randone, che stava pure lui come Raul alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed era cugino di Salvo Randone. Poi c'era una certa Piroli che insegnava a Perugia e aveva una farmacia a Roma e una Bonifazi che insegnava Storia dell'arte. Rimase piuttosto convinto del tipo di studio: molto serio, fece 3 anni in uno, come Angela Ciufoli che parlava solo russo (anche con Togliatti) e in un anno fece 8 anni di latino, 5 di greco, ecc. Walter era il pater familias, mentre Mario era un amico a cui piaceva giocare a carte, a scopone. Si ricordava tutte le carte uscite. Siccome lui (Buratti) non sapeva giocare (pareggio, spareggio, ecc.) ed era negato per la matematica, era la sua disperazione, l'ha cacciato via.... Una volta, con due biglietti del tram, gli spiegò come erano organizzati: la serie, il numero, ecc.; un'altra volta spiegò come era organizzata la rete dei trasporti: i numeri non sono dati a caso, ma ad orologio. Si partiva dal numero 1 che parte, tuttora, da ponte Milvio... Era capace di fare una somma a memoria di 10 numeri e poi te li diceva tutti partendo dall'ultimo e risalendo al primo. Non ha potuto avere un grosso rapporto con Lucidi perché, come tutte le persone molto intelligenti, lui era anche un selettivo: lui non era alla sua altezza, mentre un certo Franco Scriattoli era molto intelligente... Presero la licenza liceale nel ‘47. Facevano un giornale che si chiamava "Gioventù", di cui lui era direttore, battuto a macchina in copia unica (non esistevano fotocopiatrici...). Era una scuola molto esaltante.

Quando lavorava alla Ponti De Laurentis un giorno Dino gli disse che Silvana (Mangano) era una pigra, ci voleva qualcuno che passasse qualche pomeriggio a raccontarle cos'era il mondo greco, al che Buratti suggerì quel genio che era Mario Lucidi, che così contribuì al film Ulisse. Dopo, i contatti si diradarono, perché il lavoro al cinema lo assorbiva molto. Alla Presidenza del Consiglio c'era anche il fratello di Cubeddu, oltre a Raul e Randone. Italo lo ha conosciuto perché bazzicava col fratello: fecero delle recite insieme... Un giorno Mario gli raccontò del suo strano rapporto con le donne. La madre gli diceva sempre: tu sei brutto, ma chi te se prende, mentre lui invece, chissà per quale strano caso, piaceva alle donne. Una assistente era partita per lui. Divertito raccontava che, malgrado lui non vedesse un c... , questa aveva comprato un paio di mutandine nuove solo per lui! Era un uomo fuori dalla norma. Qualunque cosa avevi bisogno, telefonavi a lui e te la diceva. Riusciva a leggere, faticosamente, con una lente. Non hanno mai parlato di musica. Non cantava. Aveva una brutta voce, chioccia. Memoria fenomenale. A proposito di prosodia mi racconta che già nel ‘50 Lucidi trafficava con 3 o 4 registratori. Gli diceva: noi abbiamo sempre sbagliato nel leggere la Divina Commedia, perché l'intonazione è un'altra, cambiando l'intonazione cambia il significato. E gli fece un esempio. Noi diciamo: "Ed ecco verso noi venir per nave un vecchio, bianco per antico pelo, gridando “Guai a voi anime prave”". Invece la pausa deve andare dopo "bianco": le parole gli escono dalla bocca circondata dalla barba e dai baffi. Chissà poi quante altre cose gli avrà detto, ma questo lo ha colpito...

Si ricorda che ad una lezione di glottologia Lucidi chiese ad una ragazza "come si dice battaglia in francese?" E quella: "Bataille", ma lui la corresse con un'altra intonazione, sottolineando una sonorità che, detta dalla ragazza, non era venuta fuori. Una cosa fenomenale era anche per gli orari dei professori, risolveva tutti gli incastri, e tutto a memoria. Mi mostra come camminava (oscillando). Stravedeva per la nipote Flavia (Iaia). Ricorda la tata, la vecchia donna di servizio dei Lucidi, affezionatissima, lo chiamava Signorino. Una volta Mario distrattamente uscì di casa senza i pantaloni: "Signorino, Signorino...".

Mi riparla di Fiorentino, che stava a via La Spezia (ora sta a Rimini) e che ricorda la polemica, le pagine contro De Saussure...

Durante la guerra Mario ha diretto una stazione radio, e lì ha conosciuto Bausani, Santa Maria (che Buratti conosce...), Filippani (non lo conosce).

Anche Raul morì di ictus cerebrale. Lui stava sempre a casa di Walter, mentre Fiorentino andava a casa di Mario. Può darsi che abbia fatto esperimenti con Carlo D'Angelo. Moglie pianista polacca di Randone. Faceva tanti giochi di matematica, ma non li ricorda.

Non si stupirebbe se Mario si fosse messo con una donna sposata...: l'intelligenza allo stato puro ha il mondo a sua disposizione. Vedeva solo ombre, ma non aveva mai osato chiedere dettagli sulla sua menomazione, sul suo radar...

 

Cardona, Giorgio Raimondo (30.4.85)

Non ha conosciuto Lucidi, ma è al corrente delle sue ricerche e scoperte di prosodia ("che turno fai", ecc.), anche se onestamente non ha capito. Non crede che esista bibliografia altrimenti Belardi sarebbe stato informato. Esclude che Lucidi possa aver avuto notizia degli studi del maestro ginevrino sui paragrammi (ipogrammi) editi negli anni ‘70 e che egli ritiene non opera senile, né tanto meno apocrifa (ha tradotto "Le parole sotto le parole" che doveva essere pubblicato da Adelphi); Saussure teneva più di tutto a questi studi, e ne scrisse a Pascoli. Pochi giorni prima era rimasto colpito dall'anagramma nascosto "aquilone" nel primo verso della poesia di Pascoli, su Tuttilibri (La Stampa, 13.4.85). Se scriverò cose su Lucidi spera che glielo farò sapere.

 

Carpitella, Mario (17.5.85)

L'esame di glottologia l'ha dato con Pagliaro e con Lucidi. Il primo era di valore, ma freddo, arroccato nelle sue posizioni di intellettuale, Lucidi invece sapeva attirarsi gli affetti, amava il contatto con gli studenti e appianava le loro difficoltà. Pagliaro tranquillamente citava dalla cattedra testi sanscriti a gente del primo anno che lo guardava allibita. Verso il 1960 Lucidi venne a trovarlo in RAI, ma non per fare esperimenti, come ricordava De Mauro: in RAI lui si è sempre occupato di varietà, gli apparati tecnici di fonologia sono a Torino. Forse De Mauro si è confuso con suo fratello Alberto, che dirige il centro cibernetico per la lingua russa, o con l'etnomusicologo Diego Carpitella. Era appena finito il Musichiere. Ricorda che Lucidi era entusiasta di Telematch, come quiz non puramente mnemonico       (i mimi, l'oggetto misterioso, il gioco del poker) e che gli propose un gioco fonetico, molto nebuloso, assolutamente irrealizzabile in TV: far dire a gente presa dal vivo delle frasi con intonazioni diverse e poi dare dei premi. Ma era un’idea velleitaria, refrattaria al gioco, impossibile da regolamentare. Cercava di tirargli fuori con le tenaglie un qualche apparato mentale che gli permettesse di associarlo a quello che è l'enorme campo del varietà, dello spettacolo leggero, umoristico, che è il gioco di parole, ma Lucidi non sapeva portargli nemmeno un esempio e continuava a dire 16 medici, 13 medici... e qualche altra bizzarria sul numero 7 o sulle 27 civette...   Il servizio varietà era capeggiato da Vittorio Cravetto, un uomo geniale, poeta, pittore, battutista. Quando gli portò Lucidi rimase esterrefatto dalle sue teorie e disse che avrebbe dovuto chiamarsi Oscuri, non Lucidi! La cosa così decadde, anche perché poco tempo dopo Lucidi morì. Gli viene da pensare che gli studi prosodici di Lucidi possano connettersi a quel fenomeno del napoletano per cui l'aggettivo femminile ha un suono e il maschile un altro (scapricciatello). Tutti gli studenti lo giudicavano un po’ matto, mentre De Mauro, che era partito per le sue ricerche, lo capiva. Quando gli parlò delle strane teorie di Lucidi pensava che sghignazzasse, invece gli disse che si trattava di cose serissime. Se Lucidi fosse rimasto nel campo della ricerca teorica pura forse sarebbe arrivato a qualche cosa.

 

Ciufoli, Angela (1.6.85)

Tornando dalla Russia nel ‘45, frequentò la scuola di Walter Lucidi. Ha un ricordo incancellabile di Mario, gli chiedeva spessissimo delle parole russe, per cercare di ricollegarle al ceppo indoeuropeo. Ridendo, le diceva che non conosceva la Russia, ma solo Byron. Era imbevuta di stalinismo, aveva letto un saggio di Stalin sulla linguistica, era convinta che fosse una cosa geniale, apparsa prima del congresso del ‘52, l'anno prima che Stalin morisse. Ogni relatore dalla tribuna del congresso elogiava questa geniale opera di Stalin. La lesse a Lucidi e lui disse che non era affatto questa cosa geniale, e litigarono perfino per questo, cosa insolita perché in genere i rapporti erano cordialissimi. Era un uomo assolutamente fuori del comune, una memoria prodigiosa, collaborava in maniera molto stretta col prof. Pagliaro, che, se fosse vivo, mi potrebbe dare una miniera di notizie. Malgrado i suoi difetti fisici aveva un suo fascino ed aveva delle donne, un individuo in ebollizione, sempre fantasioso, non era un individuo chiuso, topo di biblioteca. Aveva molta simpatia per lei, la considerava non stupida, era interessato alla sua biografia, 13 anni in Russia, era comunista (mentre Mario non lo era). I 15 allievi del Lucidi erano sfollati per la guerra e in ritardo negli studi, ma lei e Tonino Buratti erano diversi. Si ricorda anche di Nino Fiorentino, sia pure vagamente.

 

Coccia, Michele (2.12.86)

Lo ebbe, come assistente e non come insegnante, dal ‘47 al ‘53; dopo lo frequentò ancora, saltuariamente. Insieme al prof. Giovanni D'Anna lo accompagnavano a casa e lui offriva loro qualcosa al bar. Si dedicava molto agli studenti, teneva due o tre corsi invece di uno, benché fare lezione fosse pesante. Profonda umanità, disponibilità estrema. Riusciva a scrivere alla lavagna e chiedeva agli alunni di controllare. Aveva molto sofferto. Una volta alla Biblioteca Nazionale, al Collegio Romano, dovendo consultare un libro di Plauto nella Taubneriana, che era posta in un ballatoio troppo alto, lo aiutò lui. Pensa che avesse avuto esperienze umane deludenti. Aveva ironia corrosiva, prosaica e smagata, in particolare sul rapporto uomo/donna. Ripeteva spesso che le donne erano facilmente trascinabili. In campo sentimentale mostrava disimpegno, non romanticizzare troppo. Salivava molto: quando pronunciava metteva la mano davanti alla bocca, non ha mai capito perché. Forse non ebbe mai l'incarico universitario. Era assistente assieme a Belardi. Accenna, velatamente, a qualche plagio delle sue idee. Anna Morpurgo fu quella che lo seguì di più e lo volle rappresentato da De Mauro come testimone di nozze. Belardi pubblicò gli scritti minori di Lucidi, il libro maggiore non potè uscire... Crede che De Mauro abbia tentato di ricostruirlo anche attraverso nastri magnetici.

 

Corneli, Giuliana (3.12.86)

E’ stata allieva di Lucidi e ha conosciuto bene la famiglia. Anche sua figlia si chiama Flavia Romana. Mario diceva Ragazzi, fate caciara piano! La matematica l'ha capita grazie a Lucidi. Atmosfera gaia, goliardica. Si, metteva la mano davanti alla bocca, per l'alito, perché fumava. Gli anni erano intorno al '47. Entrambi i fratelli tenevano molto al parlar bene. La moglie di Walter era un po’ più severa. Ricorda una festicciola, in cui Flavia partecipò vestita da damina.

 

Corradini, Marcello (Muscletone) (22.12.85; 15.1.86)

Dice di essere vecchio, ma lucido, perché l'enigmistica è un elisir di lunga vita. Si è ricordato di Lucidi leggendo il Tototono e ha chiesto di me ad un amico enigmista (Favolino). Ha conosciuto tutti i fratelli Lucidi, 40 anni fa. Concorda che Mario era un genio, conosceva il sanscrito. Fisicamente era un Quasimodo di Notre Dame, ma era di una simpatia unica. Lo conosceva benissimo una certa Ballarani a cui Mario aveva dato delle lezioni. Cercherà di rintracciarla. Lucidi si interessava agli esempi di enigmistica che lui gli portava. Ricorda una specie di rebus sulla parola "crittografia": un gatto di nome C che "grafia" invece di graffiare. Aveva parecchio umorismo. Aveva un occhio completamente bianco. Crede che avesse preso una cattedra di rumeno. Gli dico che Mario morì all'improvviso senza avere il tempo di mettere ordine nei lavori che aveva in corso. Se avesse saputo che un giorno questi dati sarebbero stati importanti li avrebbe appuntati! Non era uno di quelli che ti fanno pesare il suo genio, era aperto, di una simpatia unica. Anelava di sapere, si incuriosiva di tutto. Si dilettava in tutti i campi dello scibile umano. Se lo ricorda come un Ungaretti, con un grosso testone carducciano e la maschera, la mutria da Ungaretti. Era veramente un genio. Arrivava prima e più in profondità degli altri, in tutto.

 

Corsini, Gaetano (25.11.85; 15.12.85)

Allora studiava musica (composizione, pianoforte e violino), ma ha interrotto a causa della guerra. Lo ha conosciuto nel '47, come alunno, poi lo vide spesso fino al ‘51, quasi tutti i giorni. Andò in Spagna per lavoro; al ritorno, nel ‘63, seppe che era morto... Raul era pignolissimo nello scopone scientifico: ricordava tutte le carte uscite, il compagno che capitava con lui era una vittima. Tutti e tre i Lucidi avevano qualcosa in più. Lui li ha conosciuti quando stavano dietro al Brancaccio. Ricorda Oscarino, Buratti, Fiorentino e Sergio Bruschi. Li aiutò nel trasloco a via Aosta. Gli curava qualche spettacolino, tipo filodrammatica (Pensaci Giacomino, Uno in trincea) con alunni e ex alunni, facevano le prove nella stessa scuola, poi affittavano un teatro: una espressione culturale in un istituto di cultura. Cinque anni fa gli telefonarono per una cena di ex alunni: c'era Walter, Anna, e tanti altri. Colpa di Mario se si faceva rubare le idee dai cattedratici: era ingenuo, pacioccone, e pensava che i suoi interlocutori fossero onesti come lui. Invece il mondo è al contrario! Dopo un breve colloquio Mario catalogava una persona, ma tuttavia qualche volta restava fregato dalla sua ingenuità. Aveva una memoria sbalorditiva: si era creato un metro, un metodo per sopperire agli handicap. Si faceva leggere un intero articolo di giornale e quasi "leggeva" con le orecchie: si ricordava che verso il decimo rigo....; voleva lette le virgole e i punti e se si leggeva velocemente capiva lo stesso. Aveva una memoria formidabile, faceva calcoli spaventosi all’istante. Lo ha sempre considerato un genio soprattutto nel campo della glottologia. Ha letto bene il Tototono, dice che è vero. Mario insegnava matematica e faceva scrivere un'espressione alla lavagna: anche se era complessa lui seguiva lo stesso tutto lo sviluppo, anche se non vedeva la lavagna. Aveva una fotografia e correggeva gli errori: una parentesi tonda, una y. Per lui è sempre stato un mistero come abbia potuto farsi quell'altissima cultura che possedeva. Rimaneva colpito anche dal fattore umano: non solo riusciva a capire se una persona valeva, se era sincero, ecc. ma, nelle sue possibilità, lo aiutava a superare qualsiasi problema. Si spaccava in quattro, prendeva a cuore, era umano. Si interessava veramente, non a parole. Era un uomo completo. Era brutto a vedersi, grosso, dondolante, gli occhi glieli avevano massacrati con l'operazione. Crede di ricordare l'Ascione, ma solo come amica di Mario. Aveva successo con le donne, proprio per la sua cultura. Degli esperimenti degli ultimi anni non sa niente. Inquadrava l'individuo nella sua casella. Ascoltavano alla radio le radiocronache di Niccolò Carosio, i quasi gol. Ricorda i supplì mangiati con lui alla rosticceria Catena, a porta S. Giovanni. Walter e Mario erano legatissimi. Raul lavorava al Notturno dall'Italia, in tutte le lingue. Conferma che tutti non volevano che Mario si sposasse: quando qualche amicizia femminile diventava pericolosa tutti i parenti cercavano di farlo desistere, lo sfottevano... Mariolina e l'altro fratello di Oscar sapevano più retroscena. Mario fumava tantissimo. Secondo lui nei parenti c'era una forma di egoismo: lo volevano proteggere da umiliazioni da parte dei passanti, ma anche non volevano perderlo. Affetto appiccicaticcio della madre. Il tono è molto importante nella recitazione: se la battuta non è nella tonalità giusta viene fuori una stecca. Dislivello tra la tua battuta e la mia. Fa notare che il valore di "non capisco" è molto diverso in un contesto del tipo "ma non capisco come questo individuo...". In recitazione si fanno parecchi esercizi: una frase si ripete con i più vari stati d'animo. Alcune parole possono essere dette in maniera intensiva, con l'intenzione, oppure svagata, buttata là, tirata via. Una volta lui voleva musicare La figlia di Iorio di D'Annunzio, che è in versi: Mario allora gli disse "Perché non mi leggi qualche verso?" e poiché lui li leggeva bene, Mario si beava nel sentirlo, glieli faceva leggere anche in classe. Può darsi che allora lui iniziava a scoprire... Una volta Mario gli presentò De Mauro, di sfuggita. Pensa che nella crittofonia del "capisco" premettere il "non" aiuterebbe. Un musicista professionista capisce una nota anche isolata. Nei conservatori per prendere il diploma di solfeggio c'è l'esame di dettato (sol maggiore, do minore, ecc.). La musicalità delle parole è troppo soggettiva. Pensa che il parlare sia più semplice del cantare. Un attore che recita però deve usare il diaframma, come lo usa il cantante. Nel canto bisogna mettere più attenzione, quando invece si parla si è anche autorizzati a stonare, non succede niente. La stecca è un rumore sgradevole. I suoni piacevoli accarezzano l'orecchio. Vi può essere la stonatura pulita (cioè che non è adatta al contesto), oppure vi è la stonatura sgraziata, tipo stecca. Mario non cantava, gli piaceva la musica classica alla radio, però non andava ai concerti. Gli piaceva la musica forte di Beethoven.

 

Cubeddu, Italo (13.5.85, 23.5.85)

Ha frequentato Lucidi soprattutto nel ‘47, fino al ‘54 (tranne una parentesi in Germania) e sempre più di rado, fino agli ultimi anni. Era un fratello maggiore, contatto quasi quotidiano. Mario gli raccontava quello che andava facendo sulla prosodia, ma lui non era interessato. Ricorda benissimo come è nato l'articolo sull'arbitraire du signe, il suo scrittarello contro Benveniste, coinvolgendo poi tutti, Bolelli,... perché gli ha fatto da amanuense. Aveva coniato questo termine, l'iposema, che poi è rimasto. Questa ricerca dell'iposema lui l'ha vissuta, però ricorda delle cose sparse. Forse De Mauro l’ha ripresa. Aveva un formidabile cervello matematico. Degli esperimenti sui numeri primi ha ricordi frammentari, che dovrebbe fare affiorare. Spesso li poneva alla prova, cioè faceva leggere, ad esempio un verso, e poi faceva delle considerazioni. Dava molta importanza al fatto che si dicesse "fra" o "tra". Altre considerazioni anche sul modo di lettura di versi di Dante... Lui lavora in campi completamente diversi e quindi non era e non è in grado di giudicare queste scoperte di fonetica. Potrebbe tornargli in mente qualche brandello di discussione, ma bisognerebbe sollecitare i suoi ricordi con esempi, con spunti. A volte ci interrogava, prova a dire questo, prova a recitare questo verso.

Stimolato dalla mia telefonata, si è riguardato quel fascicolo sui prosodemi curato da De Mauro, con il ricordo di Pagliaro. Vuole informazioni per procurarsi i "Saggi linguistici" curati da Belardi. Ebbe un piccolo incarico all'Istituto del fratello maggiore. Non sa più nulla di Walter, non ha avuto il coraggio di riannodare... Aveva un fratello coetaneo di Mario e di Raul, che morì nel ‘65. Il famoso articolo L'equivoco... l'ha manualmente redatto lui, non tutto, fino ad un certo punto. Ha un ricordo, anche visivo, molto preciso: Eravamo all'istituto di glottologia, e una mattina Mario interruppe improvvisamente la dettatura perché aveva capito, gli erano balenate le ragioni dell'equivoco di Benveniste. Nell'articolo c'è una pagina in cui vengono addotte le ragioni per cui Benveniste avrebbe dato... Il pronome "il" che figura in quel famoso passo di Saussure, secondo Benveniste si riferiva a "segno linguistico" e non a "significante" come invece Lucidi sostiene. Mi ricordo questa scena perché improvvisamente... Lucidi, anche se avesse potuto scrivere da sé, non dettava nulla che non fosse già perfettamente costruito nella sua testa. Era un uomo tarchiato, massiccio con una curiosa andatura molto simpatica, dondolante, un po’ claudicante. La scena era questa: camminava intorno al tavolo costruendo a voce alta questo suo articolo; a un certo punto si interrompe, viene da me improvvisamente. Io, stupito, non avevo capito nulla: "Basta, chiudiamo tutto... Niente, ci rivediamo un'altra volta", perché aveva capito, e da lì poi è nato, nel titolo, "l'equivoco" fondato anche su un equivoco di lettura sbagliata di Benveniste.

Lucidi è stato uno dei primi a leggere Saussure in Italia, a farlo venire di moda. Non crede che nel ‘48-’49 fossero in molti a leggerlo, del gran pubblico. Un altro libro di cui gli parlava con entusiasmo erano i "Grundzuge der Phonologie" di Trubetzkoj, che ritorna continuamente anche nell'articolo sull'iposema. Lo interessava per le considerazioni di carattere teorico più generali: sgombrare la linguistica da problemi che con la linguistica nulla hanno a che fare: problemi filosofici, rapporto tra parola e cosa (pensiero / parola / cosa); meglio dare autonomia alla linguistica, liberandola da problemi che linguistici non sono: questa autonomia la linguistica la può conquistare proprio muovendo da principi e proposizioni per sé evidenti, da postulati proprio come in matematica (cfr. la fine dell'iposema). Ecco c'era proprio questo "modello" che gli funzionava nella testa. E Pagliaro, di cui ha riletto il "ricordo", sottolinea molto questa naturale mentalità matematica, questo grande amore per la matematica. Questa predilezione per la matematica emergeva anche dalle conversazioni, parlavano di giochi, di Russel. Le classiche difficoltà, i sofismi che risalgono agli scettici. Era pienamente interessato a questi giochi linguistici e logici a un tempo: paradosso del mentitore, paradosso del barbiere (che fa la barba agli altri ma non a se stesso). Aveva un grandissimo amore per la poesia, aiutato da una memoria straordinaria. Dante lo conosceva a menadito. Pagliaro ha ben evidenziato, nel suo commosso ricordo, anche l'enorme interesse che aveva per ogni campo del sapere. Il desiderio di autonomia per la sua scienza, la linguistica, non significava in nessun modo una chiusura dentro un terreno ristretto, circoscritto. Aveva anche grossi interessi di carattere politico, anche questo Pagliaro lo dice, ed è molto vero e molto giusto. Ricordo una sua battuta sui comunisti: il loro destino era simile a quello dei primi cristiani, il rifiuto del comunismo, la lotta, l'avversione (era l'epoca del maccartismo): era un fenomeno tra i più grossi... Non vorrebbe etichettarlo politicamente, leggeva due giornali di corrente diversa. Non era certamente un conservatore, ma guardava con molto interesse il fenomeno del comunismo. Non se la sente di definirlo ateo, una volta gli disse questo, che si potrebbe anche citare: "Io non so nulla, mi pare di sapere una cosa però: non siamo fatti a caso" Questa può essere una fede filosofica, più che religiosa. Era tutto il suo "credo" per quanto riguardava un rapporto con una trascendenza. Molto divertito, una volta gli raccontò di una donna del popolo che aveva chiesto una messa in suffragio, e poiché vi erano tariffe differenziate, questa donna insisteva per sapere che tipo di vantaggio ne avrebbe tratto l'animo del defunto. Il prete era imbarazzato, la donna era invece era sicura... Aveva una certa diffidenza per la speculazione filosofica. Lui imparò - durante la sua opera di amanuense - come si scrive, come si fanno le note (glielo insegnava), quanto può apparire a chi profano non è, quanto può essere cattiva una nota quando si dice vedi..., ma vedi anche... L'insulto maggiore che si può in questa forma accademica formulare è: "E per puro scrupolo di citazione...".

A parte queste divertite sciocchezze, il modo di impiantare un saggio, di costruirlo, il tipo di ricerca, il tipo di letture... ha molto imparato... Evitare discorsi inutili, le digressioni, andare subito al dunque, il tenere fermo il filo del discorso, dire le cose invece che perdersi con le parole... Nei suoi scritti non c'è nulla di superfluo, non c'è nessuna civetteria. Se lui (Cubeddu) resta fedele a questo stile lo deve a Lucidi. Aveva la testa un po’ leonina, interessante. Era divertente stare con lui, all'osteria. Tuttavia un ritratto dovrebbe essere molto sobrio, senza troppi aneddoti, ed estremamente rigoroso. Lucidi era tutt'altro che "accademico". Forse Pagliaro ha ripreso le teorie dell'iposema...

Quel tipo di razionalità dei giochi matematici, per lui era la razionalità. In fondo per lui la glottologia non era quella di un Pagliaro, era routine... Il suo interesse era la matematica. Vuolo ha insegnato a Messina assieme a Cubeddu. La storia del "micamuffo": si trattava di un'amica (di cui non dava connotati). Che stai dicendo? Non esiste il verbo "uffarsi"! Pare che la poveretta non capisse. Una cosa simile nel verso del Carducci "Chinato ai ruderi del foro" non gli funzionava nella testa. Spesso faceva delle domande senza dare spiegazioni. La questione dell'iposema non era di semplice nomenclatura, gli serviva per costruire... Problema della convenzionalità del linguaggio o meno...

“L'iposema sta a designare (il linguaggio non è perfetto) l'elemento primo, il dato primo immediato su cui lavora il linguista, che ha questa caratteristica della funzionalità, cioè di non essere per sé significante, tuttavia di avere una natura tale per cui può funzionare soltanto all'interno di una unità significante che però è la frase. A differenza di ogni altro segno... gli è rimasto per sempre nella testa: il segno linguistico ha questo di caratteristico rispetto a qualunque altro segno: è analizzabile. E il risultato dell'analisi è funzionale al significato del tutto. Faceva l'esempio: se io spezzo un segnale stradale (che trasmette,  comunica un comando, un divieto, ecc.) non ottengo nulla che...; non è analizzabile, funziona solo come un tutto e i suoi elementi sono ... un pezzo  di latta, ecc. ; mentre invece il segno linguistico è analizzabile in elementi che entrano poi in quel segno e sono funzionali all'espressione linguistica..  e come entrano in quel segno entrano in altri segni, cioè morfemi, fonemi,  ecc.; sono tutti elementi in cui è analizzabile il segno linguistico, che hanno questo di caratteristico, entrare con una loro funzione. Il rapporto tra parti e tutto è un rapporto funzionale, non è un rapporto di  estrinseca composizione o somma che poi possa essere divisa.

Non sa aiutarmi per rintracciare la donna di Lucidi. Non gli pare che Lucidi si possa considerare uno strutturalista. lo scopo perseguito e raggiunto con l'iposema è stato - ripete - quello di sgomberare il campo dai problemi non linguistici, e questa conquista non se l'è mai perduta, ed è stata quella che gli ha consentito di andare avanti sulla strada delle ricerche posteriori. Esclude una interruzione nel pensiero. Lucidi è certamente l'uomo più straordinario che ha conosciuto. Era un uomo molto distratto: pare che la madre una volta lo abbia bloccato prima che uscisse poco vestito. Una raccolta di testimonianze - aneddotiche - mal si attaglierebbe a Lucidi. Era un uomo molto vivo, buon compagno di tavola, estremamente generoso, però era anche schivo. Attenzione al rischio di cadere nella aneddotica un po’ spicciola.

Una volta lo presentò a Pagliaro, in occasione di un seminario a cui prese parte anche Geymonat. Lucidi chiamava Pagliaro "il principale", e loro adottarono questo appellativo per Spirito. Non crede che sostanzialmente ci fosse un attrito tra lui e Pagliaro, c'era un grande rispetto reciproco e una grande stima, ma seguivano strade diverse. Non sa nulla della diatriba sul Disdegno di Guido. Sarebbe interessante sentire i suoi allievi diretti.

Cubeddu andò a casa quando morì, avvertito da De Mauro. Gli aprì la cognata, raccomandandogli di non dir niente alla madre, che era all'oscuro. Al funerale c'era Buratti. Ricorda che Walter fu preso da un grande sconforto, scoppiò in pianto come un bambino.  Con Mario aveva un rapporto di amicizia alla pari, ma gli dava del "lei"; invece col fratello, con cui non c'era questa confidenza, dava del "tu". Una differenza di età che allora contava.

 

D'Angelo, Laura (19.9.85)

Si è laureata nel ‘54 ed ha cominciato a insegnare alla scuola dei fratelli Lucidi, dopo che c'era andata a lezione d'estate, pur non essendo stata rimandata. L'istituto Lucidi prima era in via Aosta, poi a S. Giovanni. Aveva il motto Velis Remisque. Ha avuto molta fortuna dal punto di vista degli studenti, poca da quello economico perché Walter non intrallazzava, non ha voluto fare mai la parifica perché avrebbe dovuto chiudere non uno ma due occhi sulla preparazione degli alunni. Quando cominciò a insegnare lei, Mario non insegnava più lì, stava all'Università. Walter faceva il preside, ma negli ultimi anni fu costretto a riprendere ad insegnare, latino e greco, e alla segreteria, al posto di Mariolina, sorella di Oscar, mise il figlio Sergio. Mario stava sempre con un ufficiale, e con Oscar, non perché questi fosse all’altezza di capirlo, ma perché era quello più disponibile, non faceva niente lì a scuola, mentre lei si faceva 12 ore di lezione. Esteticamente Mario era il peggiore, ma quando ci parlavi ti dimenticavi dell'aspetto fisico. Aveva fascino e una carica vitale prepotente, non era affatto diplomatico, come si conveniva agli assistenti e portaborse. Aveva un regime, anche alimentare, meno controllato di quello di Walter, si arrabbiava. Una volta le diede un vocabolario in testa e lei si rivolse a Walter, che era meno impulsivo, e che l’ha aiutata spesso, in questioni private, come un padre. Anche Oscarino, quanti insulti s'è preso! Una volta, malgrado la cecità, Mario le disse D'Angelina, hai la chiusura lampo aperta!, altre volte Bellissimo questo vestito! Aveva un’adorazione per la Ascioni, che veniva a scuola a leggergli. Li vede ancora che andavano nella stanza di fronte a fare esperimenti con un grosso registratore, che probabilmente Walter conserva. Questa Ascioni aveva una grande pazienza, verso di lei Mario aveva attenzioni particolari. Era cresciuta nella casa accanto. Ancora oggi si mantiene molto bella. Non era in buoni rapporti con la famiglia, soprattutto con Ninni, la moglie di Walter, che metteva tutti sull’attenti, compreso Mario. Già era stata una conquista quando poté andare all'Istituto. Ricorda le violentissime liti perché Mario non si doveva sposare. Però, secondo lei, Mario non era convinto di fare il passo di sposarla. Non la presentava a nessuno. Forse è stata l’unica donna con cui Mario non ha fatto niente. I Lucidi erano molto uniti, Mario era attaccato alla nipote Flavia e viceversa. Il padre era di umili origini, loro ne erano orgogliosi.

Walter è crollato dopo la morte di Mario. Parlava del fratello con molto dolore. Rammenta anche l’amarezza per Sergio e Flavia che non hanno seguito le orme di famiglia. Da 15 anni non vede più Walter. Esclude categoricamente che abbiano buttato tutto, sapendo che tipo di rapporto intenso, che vincolo di sangue c’era tra loro. A proposito della reticenza dei familiari, ritiene che vogliono solo rimuovere, non vogliono rivivere il trauma del disinteresse. La delusione è stata troppo grossa e per questo non hanno fiducia, hanno paura. Walter forse all'inizio lo aveva sottovalutato, il fratello, e comunque non ebbe tempo di continuare lui gli studi. Mario aveva una intensità di pensiero continua. Spesso mentre parlava con te, si estraniava. Faceva ripetere le parole. Si ricorda di quel forse relativo a Cavalcanti. Il "fu" del 5 maggio lo interpretava alla francese: “Fu lui...”. La definizione di genio le andrebbe bene. Non si ricorda dei numeri primi, lei ci scherzava, ma sugli alunni quegli esperimenti facevano più effetto. Secondo lei quei nastri ci sono ancora. Una volta Mario riuscì a tradurre un manoscritto che serviva a suo marito per la tesi in storia della medicina, sulle antiche tecniche di scarnificazione. Attraverso la tecnica di lettura, l'intonazione, trovò la chiave e riuscì a capire cos'era la prora e la prua del cervello. Nessuno dopo la morte di Mario ha sentito il dovere di fare un articolo. Molti spunti di linguistica di Lucidi sono stati ripresi da De Mauro che, essendo giovane, recepiva molto meglio di Pagliaro le innovazioni di Lucidi.

 

D’Anna, Giovanni (28.11.88)

Ha piacere di parlare con me, soprattutto per rispetto alla memoria di Lucidi. Ricorda la sua grande umanità e bontà. Aveva profondo rispetto per lo studente, grande attenzione per i problemi di quelli che si iscrivevano a lettere e un’enorme pazienza, nelle lezioni sull’indoeuropeo o arioeuropeo, come un professore dei college inglesi. Alle esercitazioni di Belardi lui non capiva, a quelle di Lucidi si. Pagliaro invece era chiaro, in filosofia del linguaggio. Lucidi era umile. Quando è morto stava preparando qualcosa di importante: aveva scoperto qualcosa. Definirlo "un genio" gli sta bene. E' in dissenso con alcune interpretazioni di Pagliaro (sulla critica semantica). Mi consiglia di cercare la professoressa Luciana Di Lello, che era molto legata a Lucidi. Si ricorda che fu lei a comunicargli la morte di Lucidi.

 

D’Avino, Rita (24.2.84)

Quasi si sorprende della mia attenzione a Lucidi, che all’epoca era un semplice assistente, come lei. Sui lavori scientifici non può aiutarmi. Potrei rivolgermi alla nipote di Lucidi che insegna Arte orientale all’Università o a De Mauro, che era anche amico di famiglia.

 

De Mauro, Tullio[8] (4.3.85, 13.5.85, 3.6.85, 10.9.85)

Lucidi fu suo maestro, assieme a Pagliaro, che a suo tempo lo aveva cooptato. Gli ha sempre dato del Lei perché c'erano quasi 20 anni di differenza e allora le distanze generazionali contavano. Lo seguì molto anche la prof.ssa Morpurgo, che ora insegna a Oxford. Belardi molte idee le utilizzò nel suo libro di glottologia, poi raffreddò i suoi  rapporti, anche con lui, per beghe accademiche, infatti lo escluse dalla pubblicazione dei saggi di Lucidi. Lucidi spremeva fino in fondo quello che leggeva, forse perché la sua "libreria" era ridotta per via della vista. A Ginevra, nell'ambito di ricerche sulle fonti manoscritte di Saussure, se ne interessano tuttora (Godel, Frei). I fattori extrafunzionali hanno variazioni libera, ma Lucidi ne intuì delle costanti e riteneva che la poesia stabilizzasse meglio tali fattori. Insiste sul rovello, sulla tensione intellettuale che non gli permise di stringere, però capiva che la strada era quella. Spesso telefonava alle due di notte.

Aveva un solo occhio, mal funzionante, e zoppicava, però si accettava. Era un formidabile nuotatore, in acqua questo tipo di menomazioni si azzera. Sceglieva i grandi testi "chiave" e li leggeva, come normalmente non si legge, con uno scavo intellettivo che spesso noi che possiamo ritornare sulla pagina non mettiamo. Si faceva leggere i lavori degli allievi e seguiva il filo delle coerenze o incoerenze interne, con un rigore, una vigilanza che lui non ha più ritrovato in nessuno. Aveva un temperamento gioviale, gioioso, solare, senza ossessioni con rapporti femminili, senza problemi. Ha avuto splendide fanciulle.

Era interessato al rapporto di voce maschile/femminile perché una delle ipotesi attorno a cui si arrovellava era che i fattori prosodici segnalavano, in qualche modo, laddove la morfologia tace, il destinatario, o anche la provenienza, maschile o femminile. La sua tesi era che la prosodia portava notizie. Aveva riflettuto a lungo, ad esempio, sul leopardiano "perché non rendi poi quel che prometti allor" e aveva interpretato, per ragioni semantiche ma soprattutto prosodiche, poi e allora come sostantivi. La difficoltà semantica del passo era stata rilevata, indipendentemente, anche da Pagliaro, che sollecitava appunto la critica semantica sui testi molto noti, che tante volte si ripetono scivolando per una china di interpretazioni tradizionali, senza rendersi conto delle incongruenze.

Per quanto riguarda la bibliografia su Lucidi si potrebbe chiedere a Rudolf Engler un'analisi più precisa e cercare nei Cahier Ferdinand De Saussure (non sa se hanno fatto degli indici), dove si trovano ogni tanto utilizzate le idee di Lucidi, ma quelle linguistiche sull’iposema, non quelle sulla prosodia. Lavori dedicati specificamente a Lucidi non ce ne sono. Se voglio, mi prepara lui una "schedina", con le menzioni più significative, quelle in cui non è dato solo in bibliografia, ma è discusso.

La sua descrizione intuitiva della tensività era che lui percepiva il formarsi di riccioletti o piccoli vortici variamente direzionati verso l'interlocutore o verso il soggetto parlante, o verso il testo, il testo in sé e per sé. Su questo insisteva molto e anche su fenomeni di inversione molto gravi che si avrebbero quando noi parliamo ad una persona o ad un uditorio leggendo un testo e non parlando. Ma stentava a dare una forma a queste riflessioni: ogni tanto gridava Eureka!, poi invece rientrava in crisi. Per i numeri primi aveva cercato di prendere contatto con dei tecnici della RAI-TV per sottoporli ad analisi strumentale, per vedere se c'erano delle rispondenze, se i primi venivano automaticamente pronunciati in modo diverso. Sosteneva che si potevano anche utilizzare numeri primi elevati. Si rivolse a Mario Carpitella, un bravissimo filologo, grecista e traduttore, rintanato alla televisione, che era molto divertito da formule come "tredici medici, sedici medici", da fare dire a qualche attore. Sorridendo ricorda che questi erano molto stupefatti di dover ripetere più e più volte perché non ne capivano il motivo. Lucidi voleva vedere, a sequenza fonematica identica, che variazioni c'erano in rapporto al carattere "primo" o “composto” dei due numeri. Carpitella ogni tanto, per anni, gli diceva sghignazzando: si, Lucidi è molto bravo, ma che ci faceva coi 13 medici? Non mi sa dire con quale strumentazione fecero questi rilievi. Erano le ultime cose che lui faceva, però senza risultati. Crede che dei nastri magnetici il trascrivibile sia stato tutto trascritto. Un'altra persona che può essere una fonte ricostruttiva importante è Italo Cubeddu. Tutto il clan dei fratelli Cubeddu era stato molto amico del clan dei fratelli Lucidi. Gli iposemi non hanno niente a che vedere con gli ipogrammi di Saussure.

Altra ipotesi era che la menzogna avesse un andamento prosodico particolare e di questa questione Lucidi aveva cominciato ad interessarsi dopo un piccolo incidente con Ceccato su una questione che circola nei manuali di logica, che crede si faccia risalire a Russell: Ci sono due strade, quella della vita e quella della morte, che convergono ad un bivio dove vi sono due monasteri, quello dei frati bianchi che dicono sempre la verità e quello dei frati neri che dicono sempre la menzogna. Un viandante che arriva lì deve sapere qual è la strada della morte e quella della vita e può fare due domande per imboccare la via della vita. Lucidi trovò che la soluzione si poteva trovare con una sola domanda, molto carina, metalinguistica: Se io chiedessi “questa è la strada della vita?”, che mi avresti risposto? E in questo caso i frati erano costretti a dare in ogni caso la risposta vera, in base al principio del meno per meno, della doppia menzogna o della doppia verità. Partendo da questo piccolo episodio marginale Lucidi cominciò a ritornare su quella questione perché in sostanza lui immaginava, sosteneva, gli pareva di vedere che ci fosse una situazione di tipo "lettura". Il testo menzognero è un testo artefatto, per dir così, un testo riprodotto da chi lo esegue, piuttosto che un testo detto immediatamente. E quindi gli pareva di intravedere la possibilità di trovare un gioco prosodico che fosse difforme da quello normale e rivelatore del carattere di menzogna. Però anche qui era solo un ordine di riflessioni...

C'era qualche divergenza tra Lucidi e Pagliaro, nel senso che certamente la nostra esecuzione fonica dà delle informazioni molto ricche che non siamo in grado di descrivere, e qui Lucidi ha ragione; ma queste informazioni, posto che abbiano le caratteristiche di costanza che Lucidi andava cercando, sono pleonastiche, questa era la grande obbiezione. Nella scrittura noi rinunciamo a tutto questo e capiamo bene quel che è scritto. L'impressione era che ci fosse una sopravvalutazione del ruolo, dell'ipotetico ruolo, da riconoscere a costanti di tipo prosodico nella fonazione. Detto questo, non c'è dubbio che qui ci sono dei lavori pazientemente da cercare di fare: questa era la forza di Lucidi. Tutto sommato nella scrittura noi questo non lo utilizziamo, ma il fatto che non lo utilizziamo non significa che questo apparato non possa essere presente anche in modo rilevante, perché una teorica generalissima di Lucidi era che la lingua è piena di ridondanze, di tutti i tipi, di ricchezze, diciamo, che non vengono utilizzate se non in misura ridottissima, e se non in momenti di emergenza, di particolari necessità, anche pratica o teorico/letteraria. Nei momenti di bisogno il poeta, Dante o Leopardi, fa funzionare tutta la lingua, va a ripescare tutto quel che serve...

Dopo qualche mese di silenzio De Mauro mi informa di aver casualmente saputo che Mario Di Rienzo, suo collaboratore a Riforma della scuola, aveva fatto degli esperimenti con Lucidi sulla intonazione, non sul carattere riflesso, per così dire, di lettura/non lettura, ma sulla veridicità dell’enunciato, cosa che lui un pochino aveva accantonato, perché gli pareva forse la cosa più rischiosa. Perciò mi consiglia di contattare a suo nome Di Rienzo (v. oltre).

 

Di Lello, Luciana (20.9.89)

E’ sinceramente e piacevolmente sorpresa del mio interessamento a Lucidi, ma non crede di potermi essere utile. Ne ha un ricordo molto affettuoso. Lei era studentessa (17 anni). Si ricorda di conversazioni nei corridoi, assieme ai suoi amici Morpurgo e De Mauro, che Lucidi amava moltissimo. Ricorda che le faceva contare zero, uno, due... oppure uno, due... e lei si rendeva conto di questa diversità di tono e la divertiva moltissimo che Lucidi la utilizzasse come cavia. Forse Lucidi ricambiava l’enorme simpatia che lei aveva per lui. Quando morì le dispiacque moltissimo e andò ai funerali, anche se non era sua abitudine. Secondo lei Mario aveva già in mente una teoria ben chiara che voleva verificare. Non crede che De Mauro e la Morpurgo avessero difficoltà a capirlo. Gli esperimenti secondo lei non erano cose trascendentali, la voce si capisce che è impostata in modo diverso, tuttavia non sarebbe in grado di riconoscere parole isolate dal contesto. La differenza la nota solo nella sequenza. Più che di genialità, parla della grande intuizione di Lucidi, e questo spiega anche perché ha scritto poco: infatti una persona "pensante", che lavorava col cervello, non aveva bisogno di scrivere. Assolutamente non era ritenuto un fissato, ma uno studioso serissimo. Si sentiva che godeva della stima di tutti. Allora era un'anima candida e paesana, veniva dall'Abruzzo, e non poteva sapere niente delle beghe dietro le quinte. Lucidi non era un uomo di potere e non vi aspirava. Pagliaro lo teneva perché era un uomo di valore. Lucidi non questuava, come fanno tutti e poteva anche permettersi di criticare il suo "maestro", ma signorilmente, perché era di una signorilità estrema. L'accademia è questa!

 

Di Rienzo, Mario (23.1.86)

Lo ha conosciuto negli anni ‘59, ‘60 e ‘61. Era studente universitario di lingue e faceva il maestro elementare. La sera seguiva, all'Istituto Lucidi (a San Giovanni), un corso di inglese, tenuto da un'inglese. Spesso, dopo le lezioni, ci si intratteneva con Walter che amava avere rapporti umani con gli studenti. Una sera conobbe Mario, che non insegnava più lì, e fu colpito dalla sua cultura, dalla capacità di intessere rapporti. Mario si interessava agli aspetti fonologici di questa seconda lingua. Una sera aveva un registratore - grande, professionale, a bobine, uno dei migliori del tempo - e fece fare un "gioco", lo chiamava così, che per lui aveva valore sperimentale, o di conferma, se in un contesto meno formalizzato, più alla mano, certe sue intuizioni potevano avere un riscontro positivo. Lucidi si voltava e invitava un ragazzo a pronunciare un numero indicando contemporaneamente con la mano lo stesso numero o un altro. Lui riusciva a capire, ed ha indovinato sempre, se, ad esempio, un "cinque" corrispondeva o meno all'indicazione data con la mano. Riusciva a indovinare quando era vero e quando era falso. Non c’era nessun trucco. I numeri ovviamente potevano essere pari o dispari, fino a 10. Soltanto dopo la registrazione riusciva a capire se era falso o meno. Gli altri ragazzi erano testimoni e tutti gli chiesero qual era, sostanzialmente, il segreto di questo "trucco". Mario rispose che si basava sull’esitazione dei tempi, tempi minimi, frazioni di secondo, che riusciva a misurare meglio con la registrazione. Facevano a turno: prima parlava un ragazzo, lui riascoltava e dava il responso; poi toccava ad un altro e così via (una decina di esperimenti). Molto probabilmente il registratore non era indispensabile, gli serviva anche come conferma, per essere più sicuro. Diceva che il segreto stava in una piccola frazione di ritardo dal momento in cui dava l'ordine o meglio su qualche istante di esitazione nel momento in cui dicevamo il numero. Questo esperimento l'hanno fatto 2 o 3 sere di seguito, perché la prima volta loro potevano essere più impreparati e quindi questi momenti di esitazione potevano essere più lunghi. Le volte successive invece loro hanno cercato di non fare apparire troppo evidente o addirittura di cancellare del tutto questo tempo di ritardo dal momento dell'ordine o "invito". In particolare cercavano di azzerare questo tempo anche nel caso che si accingevano a dire una bugia, cercavano di dirlo con la massima naturalezza, spontaneità e velocità possibile: però Mario riusciva lo stesso ad individuarlo. Gli chiedo se, in sostanza, si trattava di valutare i "riflessi", i tempi di reazione. Risponde che appena ricevuto l'invito bisognava dirlo subito... l'invito era a non esitare. Una volta, prima, l'ha fatto anche senza registratore. Gli chiedo se Mario si basava unicamente su questo ritardo nella risposta oppure avrebbe capito lo stesso a prescindere dal ritardo? Dicendo, ad esempio, "girati e quando vuoi tu mi dici un numero". In tal caso, senza il rapporto ordine-esecuzione, avrebbe potuto capire? Di Rienzo risponde che Lucidi l’avrebbe capito lo stesso, infatti altri esperimenti prescindevano da questo rapporto temporale.

Ci affacciavamo alla finestra e ognuno doveva dire quello che vedeva, una macchina, una pianta, una persona e però poteva anche dire il falso. Ad esempio: guardi la macchina, però dici "fiore", guardi una persona però dici “chiesa”. Anche in questo caso riuscì ad indovinare se si diceva il falso o meno. Probabilmente con i numeri stava verificando qualcosa di più, se i tempi di reazione o esitazione potevano aiutare. Per onestà professionale lui voltava le spalle, anche se non vedeva, e tutti erano testimoni. Assolutamente non si aiutava con le espressioni del viso, solo dal tono indovinava... Non era necessaria la finestra, anche qualsiasi cosa dentro l'aula. Aveva chiesto di parlare con la massima naturalezza, linguaggio spigliato di pura conversazione, per evitare bluff, camuffamenti, accentuazioni di tono, per non sviare. Il registratore sicuramente lo usò per qualche conferma; in qualche caso riascoltò 2 o 3 volte, concentrandosi molto. Oltre al tempuscolo poneva attenzione al tono, a quelle sfumature che ad un orecchio comune sfuggono, a quelle esitazioni non solo nel tempo di risposta, ma anche tra le parole, tra le sillabe più o meno legate. Per noi era un fenomeno stranissimo, eccezionale.. Il nastro non sa che fine abbia fatto, e comunque fu registrato in maniera molto informale...

In quel periodo in cui cominciavano ad affermarsi quelle scuole di puro lucro il “Lucidi” era l'unico che aveva conservato i valori della cultura e dei rapporti umani e cercava di trasmetterli ai suoi allievi. Non è un caso infatti che molti ragazzi che sono stati a quella scuola vi sono ritornati come insegnanti, proprio perché aveva una capacità di legame... Per questo non ha fatto soldi... Sui numeri primi non sa niente. Non lo giudica molto brutto d'aspetto, non era un Papini! Ha nitida l'immagine di Mario che attraversa la piazza di S. Giovanni, dondolando, senza occhiali. Si aveva l'impressione che lo mettessero sotto da un momento all'altro. Non si ricorda di nessuno dei compagni, li ha persi di vista.

 

Filippani Ronconi, Pio[9] (25.4.85, 10.5.85)

Si definisce un matto, conosce 40 lingue. Con Mario aveva un rapporto amichevole e alquanto ...sbracato. Mario era energico, coraggioso, allegro, per superare la barriera della sua vista. Erano donnaioli, soldati di ventura, ribaldi. Ogni tanto si incontravano e tra un’ingiuria e l'altra notava che la teoria di Lucidi coincideva con la sua e ne provava piacere. Lucidi chiudeva le conversazioni con una formidabile manata tra capo e collo. Era massiccio e muscoloso, lo trattava come un ragazzino, lo sgrullava. Al primo errore che faceva gli mollava un pugno in testa. Voleva molto bene a Mario, sin da quando aveva 17 anni, lo stimava e aveva con lui una straordinaria affinità di ricerca, perché non essendo glottologo, come lui, aveva però delle intuizioni parallele alle sue, dovute al fatto che sin dall'inizio dell'adolescenza (12/13 anni) si sforzava di imparare le lingue e apprendere il contenuto di culture lontanissime dalle nostre.

I Lucidi discendono dai marchesi di Corneto Sabina. Tutti e tre erano dei geni, nel persiano e in matematica. Raul aveva dei caratteri aristocratici. Mario non era un isolato, chiuso, come Walter, ma un uomo generosissimo, fatto per donare, non lavorava per sé. I singoli risultati gli venivano rubacchiati da quelle volpi fameliche che gli stavano attorno. Buona parte degli studi di Antonino Pagliaro erano dipendenti dalle intuizioni di Mario, soprattutto sull'accentuazione del vocabolo e del periodo in indoeuropeo e sulla Divina Commedia, sul cui fraseggio Mario fece delle scoperte parallele alle sue sull'ipertono (il “sapore” della lingua).

Tutto ciò che vogliamo dire entra nella prima sillaba (intensa) del nostro parlare. Infatti gli inquisitori, come gli ebrei, hanno una percezione acuta della intenzione entro la tensione del linguaggio, per cui nessuno poteva sfuggire. Sentendo, ad esempio, Spera spera il primo "Spera" dice dove va a finire tutto quanto. I numeri primi li possediamo da molto più tempo. Numerazione a base 5: gli esquimesi giunti a 20 dicono: 1 uomo = 20 dita. Le scoperte accennate prima e che Lucidi trasferì anche nell'italiano furono la porta d'entrata allo studio del significato connesso al fraseggiare ritmico melodico della lingua. Mario studiando il persiano e il greco si trovò, come lui, di fronte alla contraddizione dell'accento e della lunghezza... Mario risolse tramite il persiano, lui tramite il sanscrito.

 

Fiorentino, Nino (2.6.85)

Nel ‘48 c'era tutto un problema che riguardava De Saussure. Lui scrisse una parte (la seconda dell’articolo su Benveniste e l’iposema), si trattava di una polemica, di una requisitoria nei confronti di certe teorie di Saussure. Andò via da Roma nel ‘52, però tutte le volte che tornava andava a trovare i Lucidi, all'Istituto.

 

Gambarara, Daniele (31.1.87, 29.10.90)

E’ troppo giovane per aver conosciuto Lucidi, il vecchio allievo di Pagliaro, ma ne ha letto il libro (?), che lo stesso Pagliaro consigliava agli studenti. Per lui Lucidi è uno studioso come gli altri. Ne ha ripreso il termine iposema e lo ha consigliato all'amico Prieto, che lo ha citato in una noterella del suo trattato di semiologia.

 

Lucidi, Anna (19.3.85)

Solo negli ultimi tempi ha aiutato il cognato, facendole da amanuense. Aveva la virtù di estraniarsi, scriveva meccanicamente. Nelle pause della dettatura, mentre Mario passeggiava e rimuginava, lei lavorava a maglia. Oltretutto la materia non la interessava perché, benché si fosse laureata in lettere, era portata per le scienze, la medicina. Tutto il materiale, alla morte di Mario, fu dato a Belardi, o De Mauro.  Se hanno restituito qualcosa Walter ha buttato tutto, perché, dice, dei Lucidi non deve rimanere più niente... Walter è molto malato, per amor proprio è diventato misantropo, non vuol più vedere neanche gli amici e gli ex allievi. Un professore, come uno psicologo o un musicista, capisce gli handicap intellettivi degli alunni.

 

Lucidi, Flavia (21.2.84, 19.3.85, 28.4.85)

Lo zio morì a 47 anni, una domenica pomeriggio all'improvviso, in un'ora (trombosi). Lo trovarono con la sigaretta in bocca. Era la nipote prediletta e lei lo preferiva al padre per le confidenze. Suo padre non era un compagnone, era più serio dello zio, ed anche "critico" nei confronti del fratello. Ambiente familiare molto, troppo colto. La domenica lo zio la portava da Giolitti o a fare passeggiate nel centro storico. Aveva una memoria prodigiosa, imparava molti verbi irregolari e poi glieli ripeteva, l’aiutava spesso in matematica. Giocava al Monopoli ed era velocissimo nel gioco del 15. Il cubo di Rubik lo avrebbe fatto felice. Peccato che i computer del nipotino non c'erano ai suoi tempi, glieli avrebbe spiegati. Lucidi si interessava di tutto, voleva capire il meccanismo dei giochi dei bambini. Era uno studioso puro che non aveva interesse a pubblicare. De Mauro era molto più a contatto con suo zio che non Belardi, questo lo ricorda bene: le lunghissime telefonate, che erano telefonate di studio. Spesso le davano fastidio perché doveva aspettare. Anche lei è convinta che lo zio avesse scoperto qualcosa di importante o che stesse per scoprirlo; però è altrettanto convinta che, purtroppo, poiché lui aveva questa capacità di tenere a mente tante cose, e non poteva certo prevedere una morte improvvisa, non abbia lasciato molto. Allora suo padre Walter perseguì la possibilità di far continuare gli studi, ma ormai è un ricordo loro, privato. Nessuno ha scritto di suo zio... Quelle persone hanno tenuto qualche cosa o gli hanno ridato quello che era del tutto irrilevante. Se non altro, sono state poco corrette, potevano dire: non mi interessa, li tenga lei i nastri ed eventualmente li dia a qualcun altro.

Lo zio abitava con la madre. Lei sapeva che era un donnaiolo: avventure con donne attirate dal suo fascino intellettuale. Non conosce il nome dell’amica intima che aiutò molto suo zio, ma se fosse stata una collaboratrice, suo padre, 25 anni fa, le avrebbe affidato il compito di proseguire i lavori interrotti. Non fece esperimenti con ciechi, forse con l'attore Carlo D'Angelo, ma ormai sono passati tanti anni...

Lo zio pensava che una lettura tonale poteva portare ad una interpretazione diversa, ad esempio della Divina Commedia, che esistesse un'altra lettura che potesse svelare altri significati, ma non sa dire di più sui lavori dello zio, anche perché all'epoca era profana, non era neanche all’Università. Lo assecondava, ma senza spirito di collaborazione, anzi con atteggiamento di rifiuto e di gelosia verso questi studi che glielo toglievano. Non si chiedeva il perché le faceva pronunciare i numeri primi. Qualche volta si, qualche volta no, notava le differenza del "turno". Anche per lui c'erano ancora delle incertezze, se faceva pronunciare varie volte... C'è anche una forma di suggestione. In qualche attimo riusciva a coglierla, poi non ci riusciva più. Suo padre, benché avesse lo stesso difetto visivo (e quindi avrebbe forse potuto percepire meglio le sfumature tonali), non aveva tempo per ascoltarlo. Suo padre è ateo, neanche suo zio credeva. In un libro di cucina, di recente, ha ritrovato i ritagli dell'“Informazione tonale” di Vacca. Si, in famiglia pensavamo che fosse un genio.

 

Lucidi, Maria Teresa (5.6.85, 11.6.85)

E’ estroversa come lo zio Mario, Walter invece è introverso. E' stata colpa di Mario se non si è fatto valere. Alla Sapienza sono in molti a sapere della sua genialità. Aveva raccomandato a Flavia di conservare gelosamente i nastri perché li doveva studiare, non crede che siano stati buttati. Vorrebbe sentire anche quelli che ho io... Il figlio, lì presente, ricorda che una volta il prof. Coccia citò Lucidi in una lezione. Accenna al gesto dello zio di cedere la cattedra a Pagliaro (epurazione fascista). Ricorda i colpi di lente presi in testa. I Lucidi sono strani, hanno a cuore gli alunni.

 

Maggi, Maria Teresa (9.9.85)

Sin da bambina conosceva i Lucidi, in particolare Walter e Mario. Abitavano tutti in via Magna Grecia, che è come un paese, ci si conosce. Anche l’Ascioni, l’amica di Mario, abitava lì. Era coetanea di Mario, si conoscevano da ragazzini, forse attraverso una finestra (che mi indica). Nonostante sia vecchia è bella anche adesso. Forse non si è sposata per il culto che aveva verso di lui. Passavano i pomeriggi e le serate al Lucidi, a fare esperimenti. I rumori nei nastri sono quelli di S. Giovanni. Non capisce come abbia fatto questa donna, tutta parrocchia, ad avere questa relazione, durata tutta la vita. Mentalità ottocentesca: il “sacro amore per il genio”.

La sua famiglia non aveva rapporti con i Lucidi, anche perché appartenevano a due correnti politiche diverse: i Lucidi leggevano Il Secolo ed erano dichiaratamente fascisti, forse erano amici di Almirante. Nel palazzo abitavano tanti studiosi, anche Benvenuto Cellini, rettore a Venezia: erano le case che il fascio dava agli impiegati di un certo decoro. Mario passava gran parte della mattinata in casa, a orari regolari usciva a comprare il giornale. Lo può dire con certezza dal momento che la sua casa era posta sul passaggio dal condominio interno al cortile. Mario aveva i capelli lisci, era orrendo a vedersi, camminava traballando, con i piedi in dentro e gli occhi per terra. Aveva occhi piccoli piccoli, strabici, non sapevi dove guardava. Il padre di Mario sarà morto molto giovane, lei ricorda la madre che usciva con i figli sotto al braccio: ecco che arrivano i Lucidi! (Le faceva pena la moglie di Walter, perché si capiva che doveva essere un'intrusa). Walter dopo un po’ che era sposato si trasferì a via Poliziano, Mario ha abitato sempre qui. D'estate lavorava come un pazzo: non si ricorda che siano mai andati in vacanza. L'unico lusso la cameriera, il decoro delle famiglie di una volta.

Un giorno, quando lei aveva 12 anni circa, capitò a giocare nella scala dei Lucidi. Probabilmente Mario era incuriosito dal fatto che la famiglia Maggi parlava il romanesco puro, alla Belli (io fo, io vo...) e così le chiese: "Che ore sono?" E lei, ripetendolo da altri, forse: "Sono le dieci". E lui: “Senti la “c”, proprio romana, quasi una “s” scivolata”. Di Lucidi le aveva poi parlato molto bene Raffaele Giomini, fratello del latinista, che aveva studiato insieme a Mario. I Lucidi erano molto generosi e se lei glielo avesse chiesto avrebbero trovato anche a lei un sacco di lezioni private. Una volta vi fu una riunione presso la famiglia Grifone in via Gabi e lei vide sia Walter che la moglie. Concorda sull'ombra al maestro (Pagliaro).

 

Morpurgo, Anna (23.12.86)

Non crede di potermi essere d'aiuto per la mia ricerca. Voleva molto bene a Lucidi. L'ha conosciuto nel '57. Qualche nastro lo ha sentito anche lei, subito dopo che era morto. Si ricorda che De Mauro doveva trascriverli, poi è partita dall'Italia. A un certo punto è comparsa questa serie di Saggi linguistici, che non erano quelli che ci si aspettava, ma solo una ristampa di cose già pubblicate. E' perfettamente convinta che fosse un genio, anche se si diceva che avesse manie. Di fonetica allora non sapeva niente, oggi ben poco. Ribadisce l'infinita generosità che gli consentiva di stare a "sentire" la gente, più che imporre le sue idee. A quell'epoca si occupava di dialetti greci. Lucidi faceva le esercitazioni del corso di glottologia di Pagliaro: erano le sole cose che venivano insegnate. Queste esercitazioni erano banalissime e le doveva rifare identiche ogni anno, sempre le stesse, ma attraverso queste cominciava a conoscere gli studenti, di cui si occupava enormemente. Lucidi stava perennemente all'istituto di glottologia, ed era sempre disponibile per qualsiasi chiarimento. Sapeva stare a sentire con una concentrazione incredibile; i primi due articoli che lei ha scritto Lucidi glieli correggeva anche dopo giorni, ricordandosi perfettamente la pagina da cui li aveva ascoltati una sola volta. Suggeriva spostamenti di periodi. Anche se gli argomenti non gli potevano interessare, si concentrava lo stesso, era altruista. Non sospettava nemmeno l'esistenza della linguistica generale. Si occupava di indoeuropeistica, ben più complicata dei suoi studi micenei. La prosodia gli interessava di più. Anche a De Mauro è debitrice di alcuni concetti di linguistica generale. Con De Mauro si era amici, con Lucidi no, a causa della differenza di età. Aveva atteggiamenti "strani" per la disponibilità, quasi un santo. Le cose di prosodia era evidente che erano originali, per questo lo reputava un genio. Lucidi in tutto cominciava dai primi principi. Per ogni cosa che leggeva doveva ricostruirsela dagli inizi, con una estrema capacità di penetrazione. La maggior parte di noi impara invece delle cose e poi le risputa. L'articolo sull'arbitrario del segno è passato del tutto inosservato, sia perché era in italiano, sia perché in riviste che nessuno ha mai visto. In Italia poi a quell'epoca a nessuno importava niente di quel tipo di argomenti. Lucidi si è occupato di linguistica generale in un’epoca in cui si faceva solo indoeuropeistica. Non ricorda i numeri primi, ma "i fratelli hanno ammazzato i fratelli". Tutti abbiamo ripetuto per secoli questa frase, specie scendendo da glottologia fino a Lettere, a primo piano.  Ricorda anche che una volta, dopo aver dovuto ripetere per 18 volte "i fratelli...", con sgarbatezza, seccata disse a Lucidi: “Senta, la prosodia importa moltissimo, ma si renda conto che anche se la sbagliamo, ci capiamo lo stesso! Quando scriviamo ci capiamo lo stesso...”. Lucidi scoppiò in una risata completa: “Anna ha detto oggi una cosa grande: “Ma ci capiamo lo stesso”, e il perché va investigato”. Ricorda, sul discordo diretto e indiretto, che è diverso "Giorgio verrà domani" da "quel tale ha detto che Giorgio verrà domani" (anche se non è subordinata, con i due punti). Accenna agli attuali infiniti progressi della fonetica sperimentale e alla sintesi vocale, per cui pensa che gli studi di Lucidi siano arretrati. Per quanto questi fenomeni prosodici siano difficili da definire, bisogna dare per scontato che ci deve essere una possibilità di definizione, altrimenti non esistono (queste differenze) e diventeranno accettabili nel momento in cui li si riesce a definire. Pagliaro era estremamente sulle sue, ad un livello estremamente alto, rispetto a chiunque. Doveva essere il capo, in qualsiasi cosa. Pagliaro era ben difficile da capire perché aveva l'abitudine di dare un indizio di quello che avrebbe voluto si facesse e di aspettarsi che lo si capisse. Lei non lo capiva assolutamente mai. Solo gli iniziati capivano Pagliaro. Lucidi le cose le spiegava quando se ne andava Pagliaro. Il loro rapporto, apparente, era tra il grande Maestro e l'assistente. Non ha il minimo dubbio che Pagliaro tenesse Lucidi al suo posto (affinché non gli facesse ombra). Nel mondo accademico si valuta a chili di pubblicazioni. Pagliaro ha solo una fama nazionale, all'estero lo ignorano. Le cose "tecniche" di lingua iranica di Pagliaro circolavano tra i pochi gatti che si occupavano di queste cose. Non si ricorda dei riccioletti. Si ricorda di estense/intense, ma Lucidi diceva che era difficile definirle e portava solo esempi. Interessi su frasi bisenso. Non ha mai dato una definizione in termini fonetici dei contrasti che percepiva. Stava a sentire i giovani: dovete pubblicare per farvi una carriera. Stava a sentire i problemi. 13 medici/16 medici non lo ricorda: la maggior parte di noi non sa cosa è un numero primo. De Mauro era andato a Napoli, comunque è stato quello che lo ha seguito di più. Di Ceccato non sa niente. Si vergogna un po’ di quanto poco si ricorda. Accenna ai sistemi riconoscitori vocali, previo addestramento: una macchina che riconosce la "pesca" di uno non riconoscerebbe la "pesca" di un altro. Non sappiamo insegnare ad una macchina a riconoscere "fratelli" come soggetto o oggetto. Colpa della scrittura, dell'alfabetizzazione. La scrittura non ci impedisce di percepire i fenomeni prosodici, ma semmai di farci abbastanza attenzione. Forse usava "repetibile" nel senso etimologico, che si possa raggiungere, piuttosto che "ripetere": il significato è irrepetibile, inafferrabile se non nel momento stesso in cui lo facciamo funzionare.

Il problema era "definire" le differenze fonetiche, ma ci sono infinite cose che la gente non ha saputo definire, poi col tempo ha definito. Trovare la definizione diventerà il lavoro di qualcun altro. Si son trovate cure per malattie pur ignorandone la causa: il lavoro posteriore sarà di spiegare perché quelle medicine vanno bene. Una volta che è stato dimostrato che le cure son servite, nessuno le negherà più. De Mauro ha utilizzato l'iposema. Un segno linguistico è analizzabile, mentre un segnale stradale no: Certo, perché le parti in cui viene analizzato il segno linguistico hanno una certa unità loro, una certa validità, poi parliamo di una parola e sappiamo più o meno a cosa si riferisce (la cosa fondamentale è il più o meno); mentre se si prendono dei bambini che si tengono per mano per indicare che ci sta una scuola, e se se ne taglia un pezzettino, non si sa bene a cosa si riferiscono. Normalmente infatti non c'è un’analisi ovvia, se si ritagliano delle linee esse potranno riferirsi a parte di una strada, a parte di bambini, insomma non hanno un valore ovvio; mentre una frase del tipo "Non ho voglia di andare a scuola", per quanto la parola scuola per conto suo non significhi niente di definito (potrebbe esser parte di "questa è una scuola" oppure "questa non è una scuola") tuttavia porta a un certo tipo di significati, qualcosa che ha a che vedere con scuola. Una parola, anche fuori di una frase, limita l'estensione dei significati, il campo semantico; mentre invece la parte del segno stradale non delimita niente.

 

Naimi, Abdul Hamid (22.5.85)

Lucidi fu il primo suo amico in Italia, gli insegnò l’italiano. E lui gli insegnava il persiano: quasi uno scambio culturale. Erano insieme circa 40 anni fa, durante la guerra, alla radio, alla Presidenza del Consiglio. Raul era alla Cultura Popolare. La madre di Lucidi era cattolica e non voleva che il figlio lo frequentasse perché lui era mussulmano e temeva che gli cambiasse la religione, come se non fosse stato già abbastanza grave il fatto che Mario era ateo! Ci scherzavano sopra. Sul lavoro scientifico non è in grado di aiutarmi. Ricorda il clan di Napoli, l’insegnamento all’ISMEO, Luciano Pettech, Elena Porcari o Parri, due sorelle rumene, Raffaele Telesio o Criscuoli, una ragazza che con Mario “ci stava”, tutta gente morta o irreperibile. Lucidi captava tutto con grande intuito, si orientava perfettamente con i rumori. Lo incontrava sull'autobus. Aveva spalle quadrate e quando camminava sembrava un dado. Giocava a tric trac, un gioco simile agli scacchi o al Monopoli (e al backgammon), che si fa con i dadi ma richiede anche intelligenza. Si incuriosì dell’aneddoto dell’imperatore di Persia sul chicco di riso che si raddoppia nella scacchiera[10]. Aveva memoria e intelligenza superiore. È vero, dalla voce si può distinguere il vero dal falso.

 

Panicali, Oscar (13.9.85, 25.11.85, 25.10.87)[11]

Lo ha conosciuto nel ‘47. Col fratello seguì i corsi accelerati assieme a Buratti e Nino Fiorentino (che esclude che possa essermi utile) alla scuola dei Lucidi, che poi ha sempre frequentato. I Lucidi furono aiutati da una persona che li prese a benvolere. Anche lui ha gravi problemi visivi (cataratta congenita), ma sopperisce con adattamenti compensativi. Comunque, vedeva più di Mario. Lucidi compensava l’handicap della poca lettura - nel '47, tra l’altro, non si trovavano lenti di ingrandimento - con un eccesso di riflessione. Anche lui, quando legge una cosa mette tanta di quella attenzione che non gli può sfuggire niente. Potrebbe fare il correttore di bozze! Stava spesso con Mario, la domenica sentivano la partita alla radio. Per anni ogni sera lo accompagnava a casa e per strada Mario gli raccontava tutto. Mario girava comunque anche da solo, era autonomo. Una sera, quando c'era ancora l'oscuramento, diede una gran capocciata al palo della fermata dell'autobus. Un’altra volta andò con un piede sotto ad un taxi.

Anche a causa della differenza di età (circa 20 anni) Mario lo trattava come un ragazzino, mentre lui gli dava del lei. Anche a Walter, tuttora, pur essendo quasi di famiglia, continua a dare del lei. Nella vita privata nessuno ha conosciuto Mario Lucidi meglio di lui. Aveva interessi disparati: da Saussure alla relatività..., ma sprecava energie. Era un intelletto poco economico, sempre agitato, pensava sempre a qualche cosa: o alle donne, o alla prosodia, o al gioco delle carte... Perdeva tempo in giochetti di questo tipo: dimmi una data e ti dico che giorno è. Non essendo sposato, si buttava a capofitto sulle ricerche. Mario aveva l'abitudine di dire tutto quello che gli passava per la testa. Diceva sempre "Sai che ho scoperto...", scopriva sempre. Le sue ipotesi le dava come grandi scoperte, perché avevano intimità. Spesso si ricredeva. Mario era buono e caro, però aveva questo brutto vizio, certe volte scopriva l'acqua calda, prendeva per scoperte tutte le intuizioni da verificare. Aveva un entusiasmo un po’ infantile per qualsiasi cosa gli passasse per la testa. Appena gli veniva un barlume, magari lui per primo non ne era convinto, diceva che aveva scoperto! Era un suo intercalare: Sai, ho scoperto... che i tacchi mi si consumano! Il tono era ironico, ma vi era una forma di narcisismo. Era troppo avventato, un carattere troppo aperto. Era un mattacchione. Quando conosceva una persona sembrava che non avesse aspettato che quella, la metteva a proprio agio. Il successo con le donne era dovuto al suo carattere dei cani, che generosamente si buttano allo sbaraglio senza pensare alla propria incolumità, con molta incoscienza. Alle donne l'intraprendenza piace, perché toglie loro un po’ di responsabilità e il tempo di riflettere. A lui invece rinfacciava di essere come i gatti: prudente, attento a camminare senza rumore e a tutto.

Conosce il sistema di numerazione dei tram, che gli ha spiegato Mario. Sui numeri primi Mario parlava di eventualità, poi ricorda esperimenti sui pari e dispari, ma, soprattutto, che Mario era maniaco delle carte. Si arrabbiava moltissimo quando i giocatori non facevano i calcoli, anche di probabilità. Era appassionato, accanito: per giocare con lui ci voleva una pazienza da certosino. Si arrabbiava, ti insultava: "Hai più culo che anima!". Inoltre, mentre giocava, analizzava gli aspetti fonetici delle varie battute dei suoi compagni: Ripeti un po’ quello che hai detto.... Poi s’inventava dei giochi: la “bazzichetta”, con un sacco di regole, la giocava solo con lui. Gli interessava che funzionassero le regole. Una volta un ragazzo molto bravo, che fu costretto a giocare ad un gioco ideato da Mario e fu vinto, gli disse: Professò, se l'è dovuto inventare il gioco per battermi...

Panicali mi racconta volentieri gli aneddoti, che sanno tutti, ma non riesce a capacitarsi del mio interesse sui fatti privati di Mario... Una volta un frate a cui aveva dato lezioni voleva corromperlo con l'olio del convento. Quando lo raccontò a Pagliaro questi se ne uscì con una battuta: "Se l'olio era proprio buono...". Un’altra volta un suo alunno (di Oscar) non voleva pagarlo non essendo stato promosso agli esami. Mario nel difendere le sue ragioni si accalorò tanto da dover cambiare vestito per il sudore. E la madre: Ma che hai preso la pioggia? Ecco chi era Lucidi. Aveva un entusiasmo tale per cui si esponeva, in qualunque cosa: nel gioco delle carte, nelle discussioni, con le donne, col fratello. Con gli accademici forse no, perché aveva soggezione di Pagliaro, infatti qualunque cosa dovesse fare riguardo alla sua carriera, doveva chiedere sempre il parere del maestro. Mentre Walter era introverso, contegnoso, dignitoso, Mario, al contrario, era estroverso, generoso, aperto. Raccontava a tutti le sue figuracce storiche. Quando dava le lezioni a Silvana Mangano per introdurla nel mondo classico - e per questo aveva chiesto l'autorizzazione a Pagliaro, perché poteva non essere dignitoso che un docente universitario andasse dai cinematografari - loro ragazzi gli chiesero l’impressione che aveva avuto, e la sua lapidaria risposta rimase proverbiale: Che culo! Una volta la diede anche al telefono avendo confuso la voce del serissimo ed esterrefatto prof. Levinson (?) con quella di Peppe, un suo vecchio amico d'infanzia! Si sentiva libero, un giovanotto, anche perché non si era sposato. La Ascioni era una fisima adolescenziale che si portò dietro per tutta la vita. A quello che lui ha capito, perché di questo non parlava mai, Mario era innamorato di questa vicina di casa, ma era una cosa più grande di lui. Forse l’ha recuperata in tarda età...

La pronuncia di Mario era romanaccia. Ricorda un suo "suggerimento" scientifico sul raddoppio delle consonanti nel romanesco. I romani danno più importanza alle consonanti che alle vocali e quando vogliono accentuare, accrescere il significato di una parola calcano più sulle consonanti che non sul tono o sulla quantità delle vocali (io te l'ho dddetto!), al che Mario se ne uscì con un “Davero? Vuoi vedere che c’hai ragione?”. Un’altra volta gli suggerì l'etimologia del "tressette" dal Trissetto. Lui, premesso che in linguistica ci sono due elementi, il naso e le prove, gli rispose, motteggiando Pagliaro con voce cupa: "Si, quadra... ma le prove...". Agli accademici - osserva Panicali - non piace l'intervento del dilettante; oberati dalle informazioni perdono l'intuizione. A volte lo mandava a consegnare qualche fascicolo a Pagliaro, il principale, come lo chiamava lui. Ricorda che, da buon siciliano, questi aveva un fare comparesco. Una volta Mario si lamentò che Pagliaro gli aveva carpito un'idea: "Vedi cosa si ottiene a parlà colla gente...", al che Pagliaro: "Ma tanto a te che t’importa...". Nell’accademia - aggiunge Panicali - si discute, non si sa chi ha avuto per primo un'idea: è come con i brevetti, chi pubblica per primo è tutelato legalmente. Ricorda che riferì una battuta di Pagliaro sull'idioletto: letto dell'idiota. Una volta gli disse: “Abbiamo dato un argomento a De Mauro, si è letto un mare di libri, io tutta questa roba quando me la leggo?”

Mario non concluse né poteva concludere, anche nei suoi ultimi scritti trapela incertezza. Dopo 10 anni sarebbe stato più o meno allo stesso punto, occorrono i secoli nel mondo accademico per avere delle scoperte. Chiamarlo "genio" gli sembra troppo. Finché non si pubblica, non si codifica, la genialità è gratuita. Era tormentato, spesso mentre si mangiava chiedeva a bruciapelo di pronunciare una certa frase. Osservava il movimento della mano e muoveva le mani quasi declamando e ritmando i piedi. Per gli esperimenti preferiva prendere la gente che non ne sapeva niente, perché non era prevenuta, era più spontanea. Usava un certo Sgolacchia (?), lui invece essendo abbastanza addentro poteva essere condizionato. Anche gli strumenti condizionavano troppo, non erano probanti e per questo rinunciò agli esperimenti. Cercava una regola quantitativa anche per l'italiano. Leggeva le Rime dantesche cambiando le vocali da aperte a chiuse (piedi, tempi inglesi). Inoltre era sollecitato dall'esigenza ermeneutica di chiarire testi poetici (la Divina Commedia, ecc.), per trovarne la chiave di interpretazione. Erano almeno 6 anni che si era imbarcato in questi studi: se non aveva ancora pubblicato vuol dire che non era pervenuto... Conferma il rovello, la stanchezza: infatti quando morì pensò subito ad una trombosi cerebrale, non all'infarto come disse il medico. Quel giorno era appena tornato dalla luna di miele e la notizia lo sconvolse: il povero sceriffo - questo era il soprannome datogli dagli amici - è scoppiato!

Mario aveva un registratore GBC senza lo stop immediato (il nastro si trascinava per un po') e ne voleva comprare un altro con un tasto per bloccare istantaneamente il nastro. Lui lo aveva, glielo prestò e Mario glielo ruppe. Ricorda l'esperimento dei numeri gettati di nascosto: lo scopo era di distinguere il vero dal falso, ma c'era sempre quel problema, cioè la falsità del soggetto "esperito", che sapendo in anticipo trattarsi di un esperimento, automaticamente era falso, parlava falso, in modo falso. Mario allora cercava per i suoi esperimenti una persona ingenua, semplice, che si abbandonasse completamente. Preferiva un amico, ufficiale del commissariato, al quale queste cose non interessavano, che ripeteva passivamente, e che però aveva un accento rilasciato, da meridionale. Non usava lui, come già detto, perché collaborava troppo. L'esperimento ideale andrebbe fatto come la Candid camera, però poi bisogna fare i conti con l'accento regionale e con la personalità del soggetto. Lui cercava invece il nativo, il primitivo, l'ingenuo, il “vergine”, quindi sperimentare queste cose è difficilissimo e inoltre non sa fino a che punto possano essere teorizzabili i risultati. La ricerca di Mario non lo interessava, né lo convinceva, perché le variazioni di pronuncia dipendono da mille fattori aleatori. In latino la quantità era fissa, è segnata nel vocabolario, e chi la sbagliava provocava risate e scandalo. Nella teoria di Lucidi la tensività può variare per fattori estranei alla parola. Le sue variabili riguardano frasi "sotto campana”.

Una volta Mario doveva assentarsi qualche giorno per motivi di studio e la sua amica voleva seguirlo. Al diniego di Mario, per la presenza di gente importante che l'avrebbe notata, lei disse "Mi camuffo". L'episodio Mario lo raccontò a Pagliaro e disquisirono sull'esistenza dei verbi muffare e uffare. Aveva soggezione di Pagliaro, ne apprezzava la tecnica di ricerca, per esempio dei saggi di critica semantica (se li lesse, se li fece leggere). Mario a questo tipo di lavoro non era portato, pensa per impedimento pratico, per cui pensava molto ma scriveva poco. Gli dico l'obiezione che secondo me Lucidi faceva a Pagliaro: non critica “semantica” ma critica del testo, perché il sema è tabù, solo l'iposema è analizzabile...

Per Mario l'iposema era una questione di vecchia data, ormai assodata, era convinto della cosa. Poi considerò quell'articolo sull'iposema come un episodio accademico, forse perché accettava qualche obiezione da parte di Pagliaro, qualche riserva c'era. Pensa che secondo Pagliaro il discorso non si esauriva lì... Dal '50 in cui Mario scrisse l'iposema, nessuno se l'è filato, a causa dell'ostruzionismo di Pagliaro. Le persone più anziane che si ritengono più rotte agli imprevisti della ricerca snobbano il ricercatore più giovane, cercando di metterlo in guardia contro i tranelli o le illusioni della facile scoperta. E’ un atteggiamento quasi paterno, non è il timore dell'ombra dell'allievo. Si ricorda che Mario gli spiegava cosa era l'iposema: la parola è un sottosegno, sta all'interno del segno linguistico, è un sottomultiplo del segno linguistico che è la frase. A Pagliaro non piaceva questo termine, questo "ipo", che è come di serie B. Invece Mario intendeva un "organo" del segno linguistico che non ha significato proprio, ma contribuisce a formare il significato: un ingrediente del sema. Il dissenso di Pagliaro non era solo per una questione di terminologia, ma era profondamente convinto di questa mancanza di identità della parola nei confronti del significato. L'iposema non ha un senso proprio: il senso è dato dal contesto, cosa che si sintetizza nella frase. Per quello che capiva lui non è che Pagliaro fosse tanto convinto di questo, ma crede che fosse più che altro questione di chiarimento. Anche lui quando spiega ai suoi ragazzi questa faccenda lo fa non da tecnico linguista, ma un po’ da filosofo: la parola dà un'immagine, mentre il segno, la frase dà una comunicazione. Se io dico "Sole" ho l'immagine del sole, però non ho comunicato niente, anche se l'interlocutore immagina già l'astro diurno, come se si mostrasse, soltanto, un disegno del sole...

Mario prese la libera docenza. Agli esami si portò Italo Cubeddu come amanuense. Cita un certo Pompei come collega universitario di Mario. Non crede ai contrasti e alle beghe tra accademici. Sul veto di Pagliaro alla pagina irriverente[12] pensa che ormai Mario è morto, non gliene viene alcun danno... Tra gli intellettuali c'è lo stesso atteggiamento tra padri e figli, dovuto al famoso salto generazionale. Walter, ad esempio, si ricorda De Mauro come studente che veniva da Mario per consigli sulla tesi e su tante altre cose, ma il tempo è passato e De Mauro non si può più sentire "riconoscente" verso il fratello del suo maestro. De Mauro fu devoto finché era studente, ma quando si affermò, giustamente, si sentì autonomo.

Mario avrebbe apprezzato il Tototono e l’apparecchietto che ho inventato io. Gli propongo allora di fare un esperimento sulle frasi: Spunta il sole e Appare il sole.   In forma pacata lui non le direbbe mai. Comunque la differenza sul sole c'è. Spunta: eloquio familiare, comune, familiare; Appare: più dotto, più letterario. Bisognerebbe ripulire (dai toni di realizzazione) e arrivare alla situazione astratta. Gli chiedo di concentrarsi sulla "o" di sole: insiste che non può recitarla in maniera normale, in realtà diventa anormale. In uno dei due casi la o è più accentuata, più alta. Dipende dall'atteggiamento psicologico. Differenza del valore culturale dei due verbi, e allora ne risente pure "sole". La differenza è spesso casuale. Per questo Mario ci incocciava, ci si sgrognava. Per questo non avrebbe mai pubblicato qualcosa di scientifico e di probante. Chiunque avrebbe potuto dirgli: dove lo trovi chi parla con tanta precisione. Quando parliamo abbiamo un'infinità di inflessioni, appunto perché è lingua parlata. Anche nella lettura gli infiniti toni non dipendono solo dal contesto, ma dal nostro modo di partecipare.

Ha visto Walter un anno fa, che quasi si vergognava di essere visto in quelle condizioni: l'enfisema polmonare non gli permette di parlare e la moglie deve "tradurre". Una dignità un po’ fuori luogo, perché lui, Oscar, fa quasi parte della famiglia. Anche con lui Walter ebbe a lamentarsi del lavoro sprecato, sottovalutato, ma non si sente di condannare gli accademici, che avevano in cantiere altri lavori. Semmai si può sperare nell'interesse delle generazioni posteriori di ricercatori.

 

Paroli, Maria Teresa (26.4.90)

Come studente seguì le esercitazioni di fonetica (indoeuropea) di Lucidi, 15 ore. Lucidi si stancava, faceva molti esempi, anche storici, da Omero, li trascriveva nell'alfabeto fonetico internazionale. Queste esercitazioni erano utilissime per le lezioni di Pagliaro, che le dava per scontate e durante le quali nessuno aveva il coraggio di chiedere un chiarimento. Mi parla soprattutto del suo maestro Antonio Maria Cervi, molto affine a Lucidi perché non pubblicava malgrado l’enorme cultura. Tutti e due selezionavano gli allievi a Pagliaro. Anche Guido Calogero li apprezzava entrambi. Cervi la mandò da Lucidi per concordare un esame più approfondito di glottologia. Le assegnarono un’analisi critica tra Meillet, Pagliaro e Saussure, sui contrasti dell'interpretazione saussuriana significante/significato. Pagliaro, infatti, non condivideva certe idee di Saussure, ad esempio il concetto di "cane" per un amatore di cani, come Pagliaro, contiene elementi extralogici. In questo suo "triplice" e temerario esame in un solo giorno discusse le differenze tra Meillet (introduzione studio lingua indoeuropea) e Pagliaro ed ebbe due 30 e lode, di cui uno per intercessione di Lucidi. De Mauro sostituì Lucidi nelle esercitazioni. Conferma il contrasto Lucidi/Pagliaro negli ultimi anni. Non sa dirmi niente sulla tensività né ha ricordi di frasi o esperimenti lucidiani. Può darsi benissimo che abbiano offerto a Lucidi la libera docenza al posto di Pagliaro, quando durante l'epurazione alla caduta del fascismo, questi stava cadendo in disgrazia. Lucidi, che avrebbe potuto fargli le scarpe, nobilmente e generosamente rifiutò e il passato di Pagliaro, che aveva insegnato e scritto libri sulla teoria del fascismo, fu rimosso. Consiglia però di controllare l'anno in cui Lucidi prese la libera docenza. Il libro postumo di Lucidi uscì solo per l'interessamento di Belardi. Mi consiglia di mandare i miei lavori a linguisti non romani, ad esempio Mastrelli e Pellegrini.

 

Santa Maria, Luigi (16.3.85)

Era dipendente di Mario alla radio, assieme a Bausani, durante l'ultima guerra. Lucidi era caposezione delle trasmissioni al Medio Oriente. Spesso facevano passeggiate a Villa Borghese. Camminava quasi barcollando, era tarchiato. Pensava troppo, troppa interiorità. Soffriva di insonnia e faceva delle equazioni per addormentarsi. L’idea di una biblioteca interna nel suo cervello la trova molto calzante. Il padre era  ferroviere, avevano una casa modesta e disordinata. Lucidi era molto teorico, più che pratico. Sapeva organizzare il lavoro e aveva la tendenza a classificare, categorizzare. Ad esempio Bausani era “irresponsabile”. Ricorda la meraviglia di quando "indovinò", sentendogli leggere un monotono elenco (un comunicato), che lui non aveva simpatia per i tedeschi. Un Buonasera poi poteva essere detto con intonazioni tali da significare 36 cose. Non ebbe allievi. Una ricercatrice di Napoli, Vallini, che va spesso a Ginevra, cercherà Godel o qualcuno che continui gli studi di Lucidi. Alcune persone non gli andavano a genio, ad esempio la moglie di Raul. Qualche amoruncolo con studentesse. Un volta gli regalò un saggio, La lingua è..., con dedica, ma l’avrà perso. Ricorda il prof. Vuolo, di Salerno, amico di Lucidi. Ricorda Ungaro, un giornalista molto amico di Mario, al Minculpop nel ‘41-’42.

 

Vacca, Roberto (14.2.85, 15.4.85)

Mi regala una copia del suo vecchio libro Esempi di avvenire (1965) in cui parla della trasmissione "tonale" di Lucidi (di emozioni consce e inconsce). All’epoca ne parlò con Barducci, ma neanche questi ci capì niente. Lucidi durante la guerra dirigeva la radio di propaganda del regime in lingua armena (?). Bausani parlava il persiano come un persiano, partecipò anche Ezra Pound, poi morto in manicomio. Sarebbe opportuno un professore di cinese, come sua madre (di Vacca), per distinguere i 4, o più, toni del cinese. All’epoca lesse le bozze della tensività. Non conosce il libro delle opere complete.  Mi consegna tre nastri di Lucidi, riversati nel ‘65, e mi prega di trattarli bene. Vi sono incisi versi di Dante e la registrazione si interrompe con le parole di Lucidi: "ma si, lascia che scoppi...". Si rendeva conto di questa vena, di questa arteria che gli premeva in testa e poi è scoppiata...

Nel secondo incontro gli regalo il libro postumo di Lucidi e gli dico che i nastri non erano quelli dei versi di Dante, ma altri ugualmente importanti[13]. L’ingegnere allora gentilmente cerca questi nastri, trova solo una bobina grande con l’etichetta   1 Lucidi 2/2 riversato il 19.1.65 e me la consegna[14]. Molto probabilmente altri nastri li ha persi durante un trasloco. Gli viene in mente che potrei parlare con un'allieva di Belardi, Nora Galli de' Paratesi, che insegna all'Università della Calabria. Di queste cose di Lucidi le parlò lui quando si stava laureando (verso il ‘62) con una tesi sulla "Semantica dell'eufemismo", con analisi delle varie parolacce in giro per l'Italia. Lucidi, che lo considerava un ragazzino, a causa della differenza di età (14 anni), sosteneva che lui (Vacca) pronunciava 267 pensando inconsciamente a 367, perché ragionava in base 12 invece che in base 10. Parecchi indoeuropei, non solo europei - diceva Lucidi -, per ragioni legate allo sviluppo della matematica al tempo dei babilonesi, che naturalmente ragionavano in base 12 (sistema duodecimale e sessagesimale), ragionano innatamente o spontaneamente in base 12. Mi chiarisce che i due numeri sono uguali nei sistemi di numerazione decimale e duodecimale (100 + 100 + 60 + 7 = 267 ; 144 + 144 + 72 + 7 = 367) e il modo di esprimerli (duecentosessantasette, trecentosessantasette), che chiaramente è sempre una somma, non ha a che vedere con la "compostità", che, ovviamente, non è data da somme ma da prodotti[15]. In ogni caso lui queste finezze non le ha mai percepite, ma è sicuro che Lucidi fosse in buona fede quando diceva queste cose. Era molto fine, una bella mente, molto sottile, un grande ragionatore...

Lucidi, malgrado fosse uno studioso serissimo, andava appresso alle donne ed anche con successo, benché, poveraccio, fosse orribile a vedersi, con una cicatrice in fronte, gli occhi stravolti, mezzo zoppo. Nel libro lui ha scritto "ragazzetta", ma poi se n’è anche pentito: quella era la donna di Lucidi, ma non ha la minima idea di chi possa essere questa donna. Concorda con me che sarebbe utile rintracciarla, anche se, probabilmente, Lucidi non le avrà detto qualcosa di formale, ma le avrà solo insegnato a capire la differenza tonale, ad esempio, tra sedici e tredici. Le sfumature che cerchiamo non si possono formalizzare, le coordinazioni sono così complicate da essere indescrivibili..., come quando si impara a suonare la tromba, per pura imitazione di un suono sentito dall’istruttore.

Lucidi veniva spesso a parlare con suo padre che era matematico, era linguista, era logico, si è occupato di tante cose. Venne anche un paio di mesi dopo la sua morte, non ne sapeva niente. Un'altra strana persona che stava nel gruppo di Lucidi, oltre a Bausani ed Ezra Pound, è Filippani, professore di sanscrito, e poi Santa Maria. Riusciva a far andare d'accordo questo strano gruppo alla RAI, al Minculpop. Era un organizzatore, una personalità abbastanza magnetica, tirava dietro un sacco di gente. C'è una signora americana che potrebbe dirmi qualcosa, Iemma, il cui figlio Enzo, grande amico di Bausani, studioso di turco, morì misteriosamente in Turchia, cadde in mare, trovarono il cadavere dopo un mese.

Gli dico che del fatto dei numeri primi l'unica fonte è lui: nei frammenti postumi si parla solo di pari e dispari. Pensa che sia strano che non l'abbia detto a nessuno... Della faccenda del "turno" si ricorda vagamente. Una stupidaggine la ricorda bene: la regola che lui aveva ricostruito con la quale erano stati numerati i tram e gli autobus di Roma. Si ricordava tutte le liste dei verbi irregolari. Più che scrivere stentatamente crede che Lucidi dettasse parecchio. Pensa che quando Lucidi dettava al registratore non leggeva nessun testo, non poteva materialmente leggere, neanche un suo scritto, sarebbe andato lentissimamente. Per leggere usava una lente di ingrandimento vicinissima agli occhi, una cosa penosa. A macchina forse riusciva a scrivere. Non direbbe che Lucidi credesse in Dio, lo sorprenderebbe... Era molto razionalista e ...una persona ragionevole! Secondo lui sarà inutile parlare con Barducci, l’incontro fu molto deludente. D’altronde se non si sa bene che cosa cercare tanto meno si può sapere come misurarla, sarebbe una ricerca un po' a caso.

 



[1] L’unica breve recensione di questo lavoro è apparsa in “Lettera dalla Biblioteca” dell’Università per stranieri di Perugia (ottobre 1995).

[2]A causa dell’età, circa 80 anni, e di una recente “muraglia” che le è calata in testa in seguito alla morte della sorella Renata, a cui era molto legata.

[3]Mi mostra un paio di vecchie foto.

[4] Purtroppo non sono riuscito a intervistarli.

[5]L’ing. Bordoni nega la circostanza. All’incontro era invece presente l’ing. Roberto Vacca.

[6] Io mi sono interessato a Lucidi dopo aver letto il libro di Bausani Le lingue inventate. Roma 1974.

[7]La memoria non l’aveva tradito del tutto, perché aveva omesso solo il primo capitolo. Vedi p. 40.

[8]Nei tre incontri avuti, a parte la telefonata del 10.9.85, il professore farcì l’intervista quasi con lezioni di linguistica, che io riassumerò come posso, scusandomi per le inevitabili imprecisioni o inesattezze.

[9]Il prof. Filippani mi ha parlato di tantissime cose, molto interessanti, ma sono costretto a riportare solo quelle sicuramente attinenti a Mario Lucidi.

[10]Sicuramente la cosa interessava Lucidi in rapporto alla sua tesi di laurea.

[11]I ricordi di Oscar Panicali, insegnante di scuola media, sono una delle fonti più complete e genuine. A volte i fatti sono marginali o frammisti alle opinioni, non sempre condivisibili, dell’intervistato, ma ho ritenuto doveroso riportarli integralmente, salvo trascurabili ritocchi formali, sicuro che il lettore saprà filtrare quanto di prezioso la testimonianza contiene.

[12]Il primo capitolo di Ancora sul disdegno di Guido. Vedi p. 40.

[13]Sono quelli da cui ho tratto “Un inedito di Mario Lucidi”, Rassegna italiana di linguistica applicata, XXV, 1992, 1. Sull’importanza di tale lavoro, o di quello egualmente postumo sulla tensività, nessuno, a quanto mi risulta, si è pronunciato. La mia opinione, per quello che può valere, è che non si tratta di normali contributi scientifici ma di scoperte capitali sulle quali i linguisti dovrebbero concentrare gli sforzi o, almeno, indirizzare la ricerca sperimentale.

[14]In questo nastro c’è, tra l’altro, un indescrivibile, ossessivo studio del verso “parlerei a quei due che insieme vanno” (Inf., V, 74), recitato, direi quasi visceralmente, da Lucidi o fatto ripetere alla Ascioni infinite volte con “intenzioni” e toni diversi. Un po' prima della fine c’è un, per la verità poco chiaro, “Bèh, lasciamolo scoppiare”, ma la registrazione termina con un sereno “fermiamoci”.

[15]La cosa è meno chiara di quanto possa apparire. Delucidazioni potrebbero forse venire dalle osservazioni di Saussure sul meccanismo della lingua (CLG, pag. 176 dell’edizione francese del 1922, sulla quale si è formato ed arrovellato Lucidi).