Silvio Negro

 Saper leggere alla radio

Un tecnico ha fatto le più ampie riserve sui letterati che si pongono dinanzi al microfono

 

Corriere della sera, 30.3.1943

 

 

L’audace affermazione che riguarda i letterati è di un tecnico della radiofonia con il quale ci siamo trovati a chiacchierare in attesa dell’inizio di una trasmissione, nell’angolo di una deserta sala di concerto dominata nel fondo dalle lucide batterie di un organo gigantesco.

Gli strumenti distribuiti tutto intorno, gli spartiti ancora aperti sui leggii, il microfono collocato in fondo alla lunga asta di una specie di mobilissima gru montata su rotelle di gomma, in modo da spostarla, rapida e silenziosa, dove convenisse meglio per raccogliere più da vicino la voce degli strumenti inducevano a camminare sulla punta dei piedi, come per non destare il genio del luogo, il quale era evidentemente quello della musica da camera. Perciò, senza che ce ne rendessimo conto anche la nostra conversazione avveniva sottovoce e nell’angolo più lontano dal microfono, sebbene fosse evidente che l’orecchio d’acciaio in quel momento era in riposo.

Quell’assurdo congegno

“Al profano mette soggezione” dicemmo accennando al minuscolo assurdo congegno che pendeva sugli strumenti come un amo innescato pende sull’acqua. Il nostro compagno ci assicurò, compiacente, che il microfono mette soggezione a tutti, anche a coloro che l’hanno in confidenza da anni. Non ci sono che i bambini e i cani a non farci caso, a trattarlo con familiarità autentica; e bambini e cani – domandiamo scusa alle madri di questo accostamento, il quale non ha altra intenzione che quella dell’innocenza – sono tra i migliori attori della radio, tra i più sicuri. Perché i cani non sanno mai, e i bambini o non sanno oppure con il fresco vigore della fantasia, si immedesimano subito del gioco e vedono realmente la faccia degli ascoltatori, la vedono proprio come deve essere perché non abbia a smontare la loro nella sicurezza. Il vecchio attore – e dicendo vecchio intendiamo anche quello di venti anni – davanti al microfono è invece uno spaesato, sa benissimo che al posto di mille persone in quel momento ce ne sono centomila ad ascoltarlo, ma questo non l’incoraggia perché non può vederle in viso, come è abituato a fare dalle tavole del palcoscenico, non può contare su quegli elementi certi e collaudati che sono la suggestione elementare della scena e quella personale della figura, dell’abito e del gesto. Prima ancora degli applausi – la loro mancanza provoca sempre nelle sale radiofoniche un vago senso di inquietudine e di insoddisfazione – manca all’attore il contatto con gli spettatori, l’altro termine, la misura più immediata e certa della sua arte. Egli deve montarsi da solo, deve duellare con avversari che non sono neanche ombre, ma sono più temibili degli spettatori veri, perché sono lontani, disincantati, pigri.

 

L’impassibile tiranno

Per essere date utilmente alla radio le commedie del solito repertorio teatrale devono essere, in un certo senso, riscritte; bisogna far entrare nel testo tutti quegli elementi indispensabili che sono forniti sul palcoscenico dalla scena e dall’azione. Questo è indispensabile per l’ascoltatore; per l’attore invece è utile portare davanti al microfono anche certi elementi puramente teatrali che in questo caso servono a lui solo, che lo aiutano a mettersi nel clima, a sentirsi più che possibile nel suo ambiente naturale, nella sala piena. Così egli lascia da parte, davanti al microfono, la suggestione grossolana e materiale del trucco, ma non rinuncia a quella più personale e sentita del gesto. Davanti al microfono, che ascolta tutto ma non vede nulla, l’attore e il cantante si muovono e atteggiano come se fossero davanti ai lumi della ribalta, il gesto diviene parte integrante della battuta e della nota, il piccolo dado d’acciaio che porta la voce agli antipodi diventa di volta in volta la fanciulla amata, alla quale si fa una dichiarazione in ginocchio, l’amico indegno che non merita più che disprezzo, la vecchia madre o il commilitone ferito, la luna in cielo o la bandiera del reggimento.

“Potete rendervene conto voi stesso” disse il nostro compagno, trovandoci tutt’altro che persuasi di quel costume. Aprì una porta imbottita, ci precedette lungo corridoi sui quali il linoleum attutiva ogni passo, aprì con una certa cautela un’altra porta, grossa anche questa come quelle delle casseforti che stanno nei sotterranei delle banche, ci fece entrare in una sala sfolgorante di luci e parata di bandiere, perché lì c’era anche il pubblico, un pubblico giovane e generoso pronto all’applauso e alla risata perché costituito tutto di soldati. Erano lì perché la trasmissione era dedicata alle Forze armate; erano lì, lo si vedeva chiaro, per la prima volta, ed erano divertiti, commossi, contentini.

C’erano con loro personalità importanti: gli attori e i cantanti erano tutti celebri o sulla via di diventarlo; ma si vedeva subito che il vero protagonista era sempre il piccolo dado d’acciaio collocato in mezzo al palco. Gli inservienti non erano in faccende che per lui, per mantenerlo in una zona ovattata di silenzio; la massa neutra dei coristi gli faceva intorno un riguardosissimo anello; l’orchestra gli stava schierata davanti nella disciplina più perfetta; cantanti e attori venivano a turno a fargli le loro confidenze con una modestia rara e un bellissimo impegno. Era a lui che il principe dei cantori, tendendo ambo le mani in un gesto malioso di offerta, diceva la gioia che provava ogni mattina incontrando per la strada una giovane impiegata; il signore della risata non vedeva che lui quando, rifacendo a suo modo il monologo di Amleto, dissertava sul dubbio di essere o non essere, la cantante sentimentale gli faceva boccuccia; la cantante comica gli faceva l’occhietto. I corpi vibravano in cadenza con la musica sincopata e leggera, proprio come se fossero sulle tavole del palcoscenico, davanti ai suonatori di sassofono in giacchetta azzurra, ma nessuno osava in realtà muovere un passo, scostarsi un metro dall’impassibile tiranno.

 

Delusione per le ascoltarici

Eravamo proprio in fondo alla sala, ed avevamo vicinissima una signorina seduta a un suo tavolo fornito di telefono. Stava attenta allo spettacolo, ma sorvegliava anche più attentamente un foglio aperto lì davanti e ogni tanto, impugnato il ricevitore e data un’occhiata d’intesa alle nostre spalle, parlava sottovoce, tanto sottovoce che non riuscivamo a intendere le parole. Alle nostre spalle c’era una gran lastra di vetro e dietro al vetro un uomo in camice bianco il quale, pur dimostrandosi molto interessato allo spettacolo, non voleva evidentemente sentire come noi la musica e le parole. “È il regista – ci disse il nostro accompagnatore – colui che controlla l’esecuzione, revisiona le voci e ne gradua l’intensità. Nella sua cabina egli ascolta attraverso a un apparecchio ricevente, come fate voi nella vostra casa; solo che in ordine di tempo e di luogo egli è il primo assoluto di tutti gli ascoltatori, ed in questa qualità ha tutti i mezzi per intervenire fruttuosamente quando le cose non vanno bene”. È la graziosa signorina che parlava sottovoce al telefono, scambiando con lui quelle occhiate? La nostra guida ebbe un gesto che voleva significare come la nostra ignoranza fosse sconfinata. “Ma quella è l’annunciatrice. Parlava piano, voi dite, ma coloro che stavano poco fa davanti al loro apparecchio ricevente hanno sentito la nitida, piena, armoniosa voce di tutti i giorni, perché è il regista che, ascoltandola per primo, le dà sempre il dovuto volume”.

Così la conversazione tornò a quella complessa questione delle voci adatte e non adatte per la radio e a quella faccenda della lettura che davanti al microfono deve essere sempre diversa da quella, ad esempio, del conferenziere in sala. È per questo che i letterati, in genere, non sanno leggere, almeno alla radio. Perché leggono con tono oratorio e soprattutto leggono in fretta. Alla radio, pare, non bisogna mai aver fretta e bisogna spogliarsi di ogni lenocinio oratorio se si vuole fare buona figura. Bisogna soprattutto essere riposati e tranquilli. Guai a chi arriva in ritardo e si presenta affannato e ansante. In questi casi non c’è che da metter mano alla musica incisa, perché il malcapitato abbia il tempo di tirare il fiato e di distendersi. Poi bisogna leggere naturalmente, e leggere adagio. Mettere sempre punti al posto delle virgole, dice una ormai vecchia sentenza dell’ambiente. Saper tirare il fiato, respirar bene.

Ci sono nel campo delle lettere nomi illustri, che hanno saputo scrivere opere meritatamente famose, i quali non hanno mai imparato a leggere come vuole la radio e che non sono capaci, sembra impossibile, di tirare il fiato. Senza dire di quelli che hanno il genio non invidiato della papera, o sono inguaribilmente asmatici, o hanno la pessima abitudine di tremar con la voce o di farsi prendere dai crampi. Allora bisogna doppiarli come si fa al cinematografo per la traduzione del film. Un lettore collaudato prende il posto dell’uomo celebre, con il quale non ha in comune che il timbro della voce e la sostituzione è fatta così bene che non se ne accorgono neanche gli intimi. Lo sappiano gli ammiratori e le ammiratrici; lo tengano ben presente quegli ascoltatori che s’innamorano talvolta di una bella voce e si immaginano che tutto il resto sia in proporzione. Non è sempre così, spesso la voce inganna. A scanso di delusioni ne prendano anche buona nota tutti coloro, e pare che siano schiera, i quali, in queste occasioni, sono facili ad espandersi per lettera.