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48 – La Meccanografica di Vignini (ex BU 51)
Archeologicamente, esiste, infatti, una
scrittura del genere, ed è quella che si rinviene in certe caverne, sulle cui
pareti, rese plastiche da alterazioni dovute, probabilmente, all’umidità,
l’uomo tracciò, con le dita, i primissimi segni.
Era tale, in antico, l’associazione fra grafia e plasticità del mezzo destinato a ricevere e conservare i segni, che
gli indigeni americani incontrati da Humboldt a
oriente dell’Orinoco, per spiegare come potessero trovarsi, a straordinarie
altezze, sulle rocce delle montagne granitiche fra il villaggio di Urbana e le
rive del Caura, rappresentazioni incise del sole,
della luna, degli astri e geroglifici indecifrati, dicevano che quei segni
erano stati tracciati dagli antenati in un tempo in cui “le pietre erano ancora di tale mollezza che gli uomini poterono
solcarveli con le loro dita” (Humboldt – Vue des Cordillères).
Ma, prima ancora del segno grafico [intendo per impronta un segno
ottenuto comprimendo una matrice sul mezzo atto a ricevere l’impronta stessa.
Chiamo invece grafico un segno ottenuto comprimendo
e muovendo sulla materia scelta una
punta solcante (incisione)] sulla creta, nacque
quello impresso. L’impronta, anzi, è
un fatto naturale, che diede all’uomo l’idea di potersene valere come segnale.
Le impronte degli animali sulla neve e sul terreno fangoso sono come tante
frecce di direzione che vengono seguite per scovare la preda; gli animali
stessi, prima dell’uomo, le sfruttano.
E, dall’impronta
su mezzo plastico al grafico su mezzo
plastico , il passo è breve. In
questa seconda fase, si ha l’inizio vero e proprio della grafia (non semplicemente impressione, ma impressione e moto grafico combinati).
Lasciare, dunque, una traccia, un segnale, un
ricordo e, poi, forse, la marca di proprietà o di fabbricazione, furono le
necessità prime che indussero l’uomo ad usare il piede, la mano, le dita, le
unghie, le bacchette, i bastoncelli, le pietre, ecc., per imprimere e segnare
graficamente.
Stabilire se l’idea dell’incidere e quella dell’imprimere
a mezzo di coloranti siano o meno
coeve, non è impresa facile; comunque debbono ambedue ritenersi posteriori a
quella dell’imprimere e del segnare su mezzo plastico.
Negli scavi effettuati da Raphael
Requeña, trent’anni fa, nella valle del Tacarigua (Aragua-Venezuela),
furono rinvenuti dei cilindretti decorati che, secondo il Requeña
medesimo, dovevano servire per fare tatuaggi leggeri, ossia decorazioni a
stampa (stampa decorativa a cilindro ruotante).
Come si vede, l’idea della rotativa potrebbe
essere impugnata dagli eredi dei paleolitici del Venezuela o, per lo meno, dai
Sumeri, che, 5000 anni or sono, usavano identici cilindri per stampare
documenti, segnare marche di fabbricazione, decorare pareti e tessuti.
L’idea della stampa è vecchia quanto il
mondo.
Anche noi occidentali abbiamo gli esempi dei
cilindri, dei sigilli (tessere, marchi di fabbrica, marchi su bestiame e su
schiavi, marchi su condannati, ecc.); ma i Cinesi stampavano libri, molti e
molti secoli prima di noi, facendo uso di clichés
incisi su legno a pagina intera (un clichè, cioè, per ogni pagina). Questi
libri xilografici furono introdotti in Europa agli inizi del 1400. Di lì a
poco, con Gutemberg, siamo al “tipo”, cioè al carattere mobile.
Eppure, i caratteri mobili non sono una
nostra invenzione. Il famoso “disco di
Festo” fu impresso, mediante punzoni tipici (
Perché siano passati dei millenni per
arrivare alla stampa, come da noi oggi è intesa e sviluppata, è un mistero che
non può essere spiegato mediante la deficienza di mezzi tecnici. La più
semplice logica ci assicura che, con la nascita del primo alfabeto del mondo,
avrebbe potuto benissimo sorgere l’arte della stampa. E, forse, c’era: sotto
forma di normografi, di mezzi di riporto (caratteristici ed antichissimi i
mezzi di riporto dei disegni su stoffe, dei disegni per ricami, per
decorazioni, ecc.), di punzoni tipici (monete). Delle stesse radici TIP e PINT,
da cui sono sorte la parole τυπος
= impronta e punctum
= punto (da cui punzone) troviamo
l’origine in onomatopee molto antiche indicanti il rumore caratteristico del
battere, del coniare, dello scolpire: pin!,
pun!, tip!
Sembra, dunque, che una forza ignota abbia voluto
impedire il diffondersi della scrittura. Ed è, infatti, con l’umanesimo che sorge la stampa; non, a
causa di questa, quello.
L’idea della dattilografia come da noi intesa
(scrittura mediante pressione del dito su di una leva recante un tipo) avrebbe dovuto, logicamente, precedere quella del carattere mobile,
perché una macchina per scrivere non
è altro – fondamentalmente – che l’organizzazione meccanica di una serie di punzoni, identici, dal punto di vista
strumentale, a quelli usati per imprimere
la scrittura pittografia sul disco di Festo (quasi 4000 anni or sono).
Invece, è avvenuto il contrario.
Gutemberg, infatti, e tutti
quegli altri che lo seguono, si preoccupano essenzialmente del problema della composizione della pagina destinata alla
riproduzione,
non già a creare un tipo solo, che
possa essere usate quante volte si voglia per scrivere un solo esemplare. A
questo scopo era ritenuta più che sufficiente l’opera degli amanuensi.
Ciò dimostra che la tipo-grafia (1438) non nacque dal desiderio di ottenere la
chiarezza della lettura, e nemmeno dalla tendenza stenografica, ma dalla
necessità di realizzare la molteplicità delle riproduzioni, da una necessità
che si potrebbe chiamare, più esattamente, poli-grafica.
Perché la concezione dattilografica sia sorta
dopo quella tipografica deve, secondo me, vedersi nel desiderio di avere a
portata di mano un mezzo per “scrivere in
caratteri simili a quelli di stampa”.
Oggi, con tutta questa cartaccia, lordata
dalle rotative e dai rotocalchi, che esaspera talvolta lo spirito umano, non si
sente più quel sacro senso di “amore”
per la pagina stampata che sentivano i nostri nonni e che ancora noi provammo,
nella nostra giovinezza, quando un bel libro ci appariva come la sintesi dei
miracoli compiuti dal progredire umano; quando il solo odore della tipografia o
del giornale fresco riusciva a spronarci alle belle battaglie della mente. Ma
chi sa quanti, nel XVI e XVII secolo, pensarono con avidità alla possibilità di
costruirsi una piccola tipografia casalinga, non tanto, forse, per avere le
molte copie, quanto per possedere il mezzo di scrivere con gli stessi nitidi caratteri delle stamperie.
Caratteristica, a questo proposito, la espressione di Vittorio Alfieri, che
bramava avere una “piccola stampieruccia a mano” per imprimere i suoi sonetti
(1786).
II –
GIOCATTOLI E MACCHINE
Esiste, oggi, in Italia,, una pubblicazione
che deve ritenersi fondamentale in fatto di cultura dattilografica ed è il
bellissimo volume di Giuseppe Aliprandi: “Dalla
macchina da scrivere al dattiloscritto” [presso l’autore – via Roma, 45 –
Padova], che, insieme con il “Manuale ed
antologia della dattilografia italiana” costituisce quanto di meglio sia
stato scritto, dopo anni e anni di appassionate ricerche, da questo
infaticabile studioso.
Dalle opere dell’Aliprandi, come da quelle
del Budan [vedi Bibliografia nel citato libro di
Aliprandi], attingo le notizie contenute nel presente opuscolo. Aggiungerò
alcuni pensieri personali ai dati che delineano le origini della macchina per
scrivere: credo doveroso difendere i diritti di priorità dell’Italia in mezzo
alle caotiche, imprecise e, spesso, false affermazioni che attribuiscono ora a
questa ora a quella nazione il merito di avere, per prima, dato al mondo un
mezzo che ha rivoluzionato completamente, in un secolo, la tecnica scrittoria.
Aliprandi, seguendo il Budan,
distingue la storia delle macchine da scrivere in due grandi periodi: quello
dei precursori e quello industriale (dal
È, per esempio, fuori di posto, nella storia
della dattilografia, parlare dei dadi del Rampazzetto
(a meno che non fossero qualche cosa di meglio di ciò che si dice);
classificare fra le macchine per scrivere
Come pure non è possibile accettare, fra le
macchine destinate a chi ci vede (visografiche), quelle costruite per i ciechi (tiflografiche ed estesiografiche),
poiché i concetti costruttivi debbono necessariamente differire in relazione
con la destinazione dello strumento.
La storia della dattilografia è, invece, la
storia della macchina per scrivere. E
non può chiamarsi macchina se non un congegno in cui, alla chiarezza dei
caratteri ottenuti sulla carta, si uniscano i concetti di utilità, di rapidità,
di funzionalità. In altre parole, non possono chiamarsi macchine per scrivere
delle rotelle, come la Pocket
inglese, e neppure le macchine ad un
tasto, in cui non esiste la indipendenza dei tipi.
Le macchine ad un tasto sono, infatti,
costituite, generalmente, da un supporto
(disco, piatta, barra, pettine, cerchio, rullo, ecc.) sul quale sono
progressivamente incise o stabilmente applicate, le lettere dell’alfabeto ed i
segni grafici supplementari. Il supporto gira
su un perno o scorre entro due guide
– più o meno automaticamente – fino a presentare alla carta destinata a
ricevere l’impronta, la lettera voluta. In questo momento, per mezzo di una
leva, si comprime la lettera sul foglio.
Per stampare la lettera successiva, è, poi, sempre necessario far scorrere a vuoto, lungo la barra o il
cerchio, le lettere intermedie non necessarie. Si possono così avere
passaggi a vuoto che impegnano
talvolta la totalità delle lettere incise sul supporto. I tipi, in questi
congegni, sono, dunque, interdipendenti.
Si tratta, come si vede, di strumenti che
hanno lo scopo precipuo di imitare, scimmiottare – a fine eminentemente
estetico – la scrittura tipografica: e, spesso, non sono che giocattoli, come
tali adoperabili, ma non degni di figurare nella storia della dattilografia.
Macchine per scrivere sono, invece, quei
congegni nei quali i caratteri, tutti indipendenti
fra loro, sono posti a disposizione dell’arbitrio dell’operatore a mezzo di una
tastiera multipla; nelle quali, cioè, è totalmente evitata l’operazione della
scelta – mediante rotazione o scorrimento del supporto – del carattere da
imprimere.
La macchina per scrivere deve rispondere al
principio fondamentale della sostituzione
vantaggiosa della scrittura a mano; deve, cioè, essere rapida, precisa e
(possibilmente) … meno rumorosa delle attuali.
Possono chiamarsi documentazioni dello sforzo
creativo della macchina da scrivere aggeggi del tipo Burth
(1829), ingranaggi come quelli del Pierrot (1839) o labirinti meccanici del
genere =. T. Eddy (1850)?
Si tratta di realizzazioni che richiesero
evidentemente tempo, pazienza, astrusità…; ma mancano di ingegno aderente alla
realtà. E questo difetto è dimostrato dalla interdipendenza delle leve o dei
punzoni.