Lodovico Bosellini (1811 – 1871)

Sulla natura filosofica dei telegrafi

(in appendice a F. SerafiniIl telegrafo in relazione alla giurisprudenza – Pavia 1862)

 

Lieto che voi toglieste a trattare la nuova ed interessante materia de’ telegrafi, io mi diedi ad alcuni pensieri che vi espongo: non so se potranno parervi non al tutto scevri di utilità.

§ 1. L’uomo non è un puro spirito; l’uomo è l’unione di un’anima intelligente e volente e di un corpo organizzato per modo da servire a quell’anima che lo governa. Lungi egualmente da un basso materialismo che degrada l’uomo, e da un esagerato spiritualismo che lo distrugge, dobbiamo considerarlo quale esso è. L’anima spirituale non esercita alcuna influenza sulle cose esteriori se non per mezzo del corpo. Gli atti dell’anima non possono estrinsecarsi sulle cose esteriori né comunicarsi agli altri uomini se non per mezzo di un’azione materiale; ma quest’azione materiale non è per sé medesima l’azione dell’animo, e non ha valore se non in quanto esprime l’azione di un animo intelligente e liberamente volente. Or qual modo terrà l’uomo a partecipare altrui i propri pensamenti e voleri? L’uomo posto a contatto con le cose immateriali ne è per natura signore: egli non ha d’uopo di altra manifestazione del pensiero per apprenderle e destinarle alla soddisfazione dei propri bisogni e desideri che dell’atto stesso di apprenderle colla forza e servirsene. L’uomo dissocievole può essere muto, ed io vorrei sapere dal buon Rousseau che dovrebbe farsi della facoltà di parlare l’uomo in quello stato ch’ei sognava? Ma l’uomo a contatto dell’altro uomo non può adoperare così: egli deve rendere esteriormente palesi sensi dell’animo senza tradurre que’ sensi in violenza? ed egli può valersi di due modi: l’uno affatto animalesco e l’altro proprio esclusivamente dell’uomo. Sarà il primo quello dei segni imitativi o espressivi (dicevo nella Gazz. dei Trib. Di Milano, 1861, N. 16 22 43 – 45): così l’uomo esprime l’amore coll’atto dell’abbracciare, l’ira con un gesto minaccioso, la fame col mostrare sfinitezza di corpo, e via discorrendo. Ma questo modo è troppo presto esaurito nella sua limitatissima potenza, e l’uomo è inferiore in questo agli animali bruti i quali hanno istinto più perfetto del suo. L’uomo è chiamato ad adoperar la ragione, e perciò non deve arrestarsi alle azioni puramente animali più che non esiga la necessità di sua natura che mentre da un lato lo solleva sino alla somiglianza di Dio, dall’altro lo vuole partecipare dell’organismo materiale al pari dei bruti. L’uomo può sollevarsi di più, e per mezzo dell’astrazione e dell’immaginazione inventare un sistema assai più ampio di manifestare le idee, sistema che è bensì proprio dell’uomo né si accomuna ai bruti, ma pur si risente ancor troppo di una certa preponderanza delle facoltà corporee che si adoperano per maneggiarlo e svela l’intelligenza del soggetto pensante essere ancora rivolta alle cose sensibili. Questo sistema è quello che dicesi del linguaggio simbolico, figurato o mimico. L’uomo figura un certo mito quale caratteristico di una descrizione o di un’azione materiale: figurando quel mito caratteristico vuol figurare un’idea. A questo appartengono ancora i suoni imitativi. L’uomo che vuole indicare un leone che sbrana, vi farà il ruggito, poi l’atto dello sbranare; se vuole indicare un toro che uccide colle corna un cavallo, farà le corna con le dita, farà con le mani l’atto di correre del cavallo, poscia l’atto del cozzare, e ripetuto il segno che simboleggia il cavallo lo seguirà con un segno imitativo del cader morto. Si potrebbero moltiplicare a sazietà gli esempi di questo linguaggio simbolico che è il primo ad adoperarsi tra due uomini i quali non possano intendersi per via della favella. Così l’adoperano i sordo-muti non istruiti, ed anche gli istruiti quando debbono comunicare i loro pensieri a chi non ne conosce il linguaggio dattilologico e quando non è dato di scrivere; e lo adopera chiunque si trovi con uno straniero col quale non abbia alcun legame di lingua. Questo modo di esprimersi è molto energico, ma lungo, faticoso e limitatissimo, e chiunque però si perde della parola, poiché ogni movimento del corpo, ogni gesto dovendo esprimere un’idea, si può riescire ad esprimere molte idee materiali e semplici, ma non senza difficoltà idee complesse, idee dedotte, e riesce quasi impossibile lo esprimere quelle astratte, salvo che non sieno tanto note ad entrambi quelli che conversano, e tanto assentite che non faccia d’uopo lo esprimerle più che con un cenno dirò di riferimento. Da ciò scorgesi come questo linguaggio sia imperfetto e insufficiente all’uomo, come serva male ai bisogni di questo, e non sia che un ultimo mezzo di comunicazione quando altro ne manchi e scorgesi ancora quanto vadano errati coloro i quali per no so quale preconcetto sistema vogliono pareggiare i sordo-muti agli uomini parlanti dicendo avere i sordo-muti il linguaggio d’azione in luogo delle parole. Questo linguaggio infatti non è proprio dei sordo-muti ma comune a tutti gli uomini, e non è che un linguaggio rudimentale che cede il luogo appena un altro più perfetto se ne possa adoperare, come è appunto quello della parola, ed è questo sì vero che gli ammaestratori dei sordo-muti non si contentano del linguaggio di azione, ma adoperano una specie di scrittura volante con cui esprimono le parole parlate, voglio dire la dattilogia. E notasi intanto questa qualità caratteristica del linguaggio simbolico, cioè che esso non esprime propriamente le idee, ma le immagini e quindi è un linguaggio dell’uomo sensibile più che dell’uomo pensante.

§ 2. Ma Dio non abbandonò l’uomo, sua prediletta creatura, senza uno strumento assai più perfetto, strumento che sebbene materiale si prestasse però ad esprimere tutti i moti dell’animo. Iddio gli diede gli organi della bocca e della glotta foggiati per modo da potere esprimere articolatamente una quantità prodigiosa di suoni. Al logos o verbum interno, all’anima ragionevole e pensante che fu creata a somiglianza del logos o verbo increato ed eterno, fece strumento e simbolo il logos o verbum esterno, cioè la parola la quale (come avvertiva Cicerone) distingue l’uomo dai bruti, e attesta la natura socievole di quello per modo da paralizzarne nello stato insocievole una delle più preziose e care facoltà. La parola, dono del creatore e coeva alla creazione, è la estrinsecazione naturale dell’animo umano; la parola, legame della società, arreca diletto inesprimibile a chi la proferisce e a chi l’ascolta, tantochè non è compiuto l’effetto della parola se proferita non sia dagli organi vocali. Chi legge una stupenda poesia, un bel sermone, non ne prova tutto il diletto che può produrre se non recitandolo, vocalizzandolo. Gli organi dell’uomo si prestano a proferire dei suoni e a modificarli, a proferire vocali e a modificarle colle consonanti; e mediante la numerosa serie di queste modificazioni egli ha innanzi a sé un numero grande di suoni complessi coi quali può esprimere molte idee. Di più oltre ai suoni semplici ed ai complessi l’uomo ha pur anco a sua disposizione una serie indefinita di suoni accoppiati. Nulla a lui torna impossibile ad esprimere, ma soltanto è necessario che la lingua in cui egli parla sia nota a colui al quale parla. È ridicolo supporre le lingue formate per convenzione, sebbene per tacito consenso possano arricchirsi. Come il primo uomo e la prima donna parlassero noi non sappiamo; e questo solo sappiamo che le lingue si mutano ne’ tempi e luoghi diversi per cagioni multiformi e varie; e quando due uomini conoscono una lingua ancorché povera, possono arricchirla con nuovi vocaboli definendoli, e se la pluralità degli uomini di quella nazione accetta l’uso, quel vocabolo va a far parte della lingua.

§ 3. Col mezzo del linguaggio parlato l’uomo può esprimere qualunque concetto; ma non può per altro fare violenza alla natura stessa delle cose, né far sì che la parola esprima tutto il concetto; poiché, come si è detto, l’opera immateriale dell’animo è sempre più grande, più forte, più estesa, che l’opera materiale della favella. Questa dovrà prendere delle immagini corporee per esprimere le idee incorporee, e ciò è una delle cause più grandi di imperfezione; e tante volte dipende dal trovare un vocabolo appropriato, il fissare le idee in modo certo, indubitato, non equivoco. Le lingue sono tanto più perfette, quanto più chiaramente e nitidamente valgono ad esprimere le idee d’ogni fatta.

Ne viene però un altro vero che è la chiave d’ogni ermeneutica, e che si suole molte volte dimenticare, e per conseguenza cadere in gravissimi errori. La parola, come si è detto, non abbraccia mai tutto il concetto, e per conseguenza è un errore il credere che nella parola sia quello tutto quanto; e non escludo la stessa parola di Dio, cioè i libri Santi i quali pure sono scritti con mezzi umani, e la parola, benché più appropriata, non può esprimere tutto il concetto dell’agiografo, e molto meno il concetto di Dio che lo ispirava. Per questo Gesù Cristo non lasciò scritto il suo Vangelo in un volume, dicendo qui è tutto; ma istruì i banditori della sua legge, e disse andate ed insegnate, ed altrove disse ascoltateli. È falsa in radice l’ermeneutica de’ protestanti, i quali vogliono ridurre la scrittura a lettera morta scompagnandola dalla tradizione che le dà vita e la svolge ove sia d’uopo. Così per la tradizione si è avuto più largo, più preciso il concetto della parola, e si è potuto trovare i termini opportuni ad esprimere l’idea, il concetto che quella era chiamata a presentare, quando di tale allargamento o di tale precisione fu d’uopo. Lo stesso accade nell’interpretazione delle leggi e degli atti dell’uomo. La parola è morta, né si ravviva altrimenti che col concorso di tutto ciò che informava colui il quale l’adoperava, poiché è quel concorso che dà valore ai vocaboli, è quel concorso che ne spiega la causa, e spiegandola ne restringe od allarga la forza. Le stesse parole adoperate in Roma antica avevano un valore, ed un altro ne avrebbero ora in Italia, un altro in Francia, un altro in Inghilterra. Basta confrontare il linguaggio giuridico delle diverse nazioni per rimanere persuasi.

§ 4. Un’altra osservazione è da fare: la parola non si guarda in chi la proferisce ma in chi la raccoglie. La parola infatti è un moto dell’anima manifestato con fisico mezzo affine di destare un moto corrispondente nell’animo di colui al quale è diretta. Ella non ha compiuto il suo moto, non ha raggiunto la sua meta insino a tanto che non è giunta all’altro uomo e non ha portata in lui l’idea del proferente: la parola è come non detta se non è udita o se non è intesa. Da ciò viene la teoria degli equivoci per la quale il discorso nulla vale intraddue uomini dei quali l’uno volle esprimere un’idea l’altro ne intese un’altra, e donde invece di nascere alcun che di reale non nasce che un effetto ridicolo come vediamo accadere tra chi parla diverse lingue e specialmente se sono affini, e più spesso ancora tra chi parla diversi dialetti di una stessa lingua e crede di spiegarsi chiaro mentre l’altro intende a rovescio. Ciò che i giureconsulti romani bene espressero colla teoria essere nulla la stipulazione se non siavi il consenso, la qual teoria non si potrebbe applicare ad un consenso estorto per dolo o per timore, perché per tali vizi il consenso non si annullava, ma proprio si applica al caso del consenso apparente derivante da un equivoco. Ad evitar questi equivoci gli scolastici nell’argomentare scambievolmente praticavano sempre di far ripetere dal rispondente la proposizione detta dal proponente.

Ne viene un’altra conseguenza ancora ed è quella che se avvenga all’incontrario che la parola arrivi a chi la deve raccogliere ancorché per avventura non proferita con la voce di chi la emette, ciò basti ad ottenere l’effetto. Leggiamo negli atti Apostolici che Saulo udì una gran voce la quale gli gridò, o Saulo o Saulo perché mi perseguiti? ma questa voce non fu udita da chi gli era d’intorno. L’onnipotente fece dunque che Saulo raccogliesse quella parola senza che il suono se ne diffondesse nell’aria, senza forse che la voce fosse proferita nel modo ordinario e comune ed ella ottenne tutto il suo effetto perché fu raccolta. Per tal modo noi possiamo intendere come avvenisse il miracoloso udirsi della voce di Dio le quante volte la scrittura santa ce lo narra, e come pure avvenisse che gli apostoli predicando nella lingua loro, gli innumerevoli ascoltatori udissero ciascuno nella lingua propria; il prodigio consisteva nel far si che essi raccogliessero la parola o non proferita (almeno nel modo ordinario e comune) o proferita diversamente. Non senza ragione, come vedremo in appresso, io adopero l’espressione di raccogliere la parola suggeritami da Dante laddove dice:

Tale vid’io, quell’anima che volta

Stava ad udir turbarsi e farsi triste

Poi ch’ebbe la parola a sé raccolta

§ 5. La parola è un aggregato di suoni articolati destinati a ferire l’orecchio di chi l’ascolta per modo da destare in lui quell’idea che vuole destare chi la proferisce. La parola è propria dell’uomo perché ella sola vale a destare delle idee: le grida e i suoni incomposti sono comuni anche agli animali bruti, e servono a destare sensazioni ed immagini, ma sebbene queste nell’uomo possano convertirsi in idee, l’idea non deriva veramente da quel suono ma da un ragionamento che su di esso istituisce come quando dal grido di un animale ne argomenta lo stato di quell’anima irragionevole. Ma il linguaggio articolato esprime a chi lo intende tutto quello che vuole esprimere chi parla. È anche il modo naturale di esprimere fra gli uomini il consenso, perché chi proferisce le parole in modo che l’altro le ascolti e le intenda fa sì che questi conosca i sensi di quello, e se questi con quel mezzo esprime sensi conformi, vi è veramente il consenso, il sentire assieme, che si compone di due elementi: la cosa e il tempo, e vuol dir sentire la stessa cosa e nel medesimo tempo. Si breve è lo intervallo tra la proposta e la risposta che può aversi per contemporanea l’una e l’altra. Al contrario se fossevi distanza di tempo, può rimaner dubbio se siavi stato consenso.

§ 6. Gli ostacoli alla trasmissione della parola sono due: lo spazio e il tempo. Quanto allo spazio può distinguersi quello che si può superare coi modi ordinari del parlare ad alta voce, quello che si può superare col sussidio di portavoce e quello che supera ogni possibilità di trasmissione della voce. Così si può vedere ad occhio nudo, e si può vedere a distanza molto maggiore coll’ajuto di telescopi.

Qui però mi fermerò ad una considerazione. Se un uomo riesca a far sì che un altro percepisca le parole di quello senza che egli le proferisca, si riguarderà parlare o no? Certamente nessuno dubiterà che siavi identità se quegli possa ottenere che le parole pervengano all’intelligenza dell’altro per mezzo del suo udito o destando nel sensorio comune eguale sensazione. Ma se si rivolga ad altro senso? Se egli delinei all’ascoltante presente dei segni i quali risvegliano in lui la immagine della parola, si dirà parlare? si riguarderà verbale la loro comunicazione? Le misteriose parole scritte da Dio sul muro al lussurioso Baldassare, parlavano esse? O per venire a cose ovvie, quando il professore delinea sulla lavagna parole o algoritmi, parla egli? Quando il sordo-muto istruito dispone successivamente le dita della mano in tante foggie che esprimono le singole lettere dell’alfabeto e quindi i suoni corrispondenti, e ciò fa dirigendosi a persona che comprende quell’alfabeto, parla egli? Qui si fa sottile l disquisizione, perché se noi guardiamo nella parola la parte sensibile, saremo inclinati a rispondere di no; ma se guardiamo la parte intelligibile dovremo rispondere di si perché l’ascoltante percepisce, raccoglie la parola non diversamente che se la sentisse risonare nell’orecchio, ed anzi spesso la ripete colla propria bocca. Presenti l’uno all’altro si comunica il logos, il verbum, la parola scambievole, e può anche accadere come nel caso di un sordo semplicemente, o di un muto semplicemente, che interloquiscano adoperando l’uno o la dattilologia o la scrittura, l’altro la voce. In verità questi sono mezzi secondari, sono mezzi che si adoperano solamente nel caso che la parola non possa per qualche ragione proferirsi o udirsi, e se ha un caso analogo in due amanti che dall’interno di due case opposte si parlino colla dattilogia de’ sordo-muti perché la strada impedisce loro di parlare alla voce senza ch’altri oda quelle cose che sono riservate all’intimità del cuore. Per ciò io penso che questo sia giuridicamente un parlare, e che si debba riputar verbale il colloquio, verbale il consenso così espresso, verbale il contratto, e penso che se i Romani, giunti all’immenso sviluppo della civiltà loro, avessero conosciuto quel mezzo per cui si erudiscono i sordo-muti sino all’espressione delle parole, avrebbero consentito loro la stipulazione, tanto più che abbiamo nella L. 30 de V. O. che se scrisse taluno di avere promesso per istipulazione si ha come se stipulato abbia. Molto più penso aversi per verbale il consenso ed il contratto nell’uso moderno, e non saprei vedere perché non si avesse a chiamare nuncupativo il testamento che un tal sordo-muto facesse parlando colla dattilogia davanti a testimoni, e al notajo che bene intendessero quel metodo di proferire, cioè di estrinsecare le parole. Non mi si dica esser quello un parlare a cenni, perché cenno non è la parola, né cenno esprime un movimento delle dita, come grido non è parola articolata. I cenni e le grida sono una maniera di segni dell’idea non della parola, e per lo più presuppongono una convenzione che dia loro anticipatamente il significato.

§ 7. Ora facciamo un’altra considerazione. Supponiamo due uomini posti a qualche distanza ma non tanta che parlando l’uno ad alta voce e avendo l’altro un buon udito non possano intendersi; presupponiamo ancora che o l’uno abbia poca voce o l’altro sia sordastro, e che per intendersi adoperino l’istrumento di un terzo. Chi parla a bassa voce ha accanto uno stentore che ripete con tutta forza le sue parole sicchè dall’altro sieno udite.

Analizziamo questo fatto. Il parlante parla, ma non è il suono delle sue parole che ferisce l’orecchio dell’altro, e quello che ripete ed è udito non esprime le proprie ma le altrui parole, egli è in certo modo un portavoce umano. Se non che non essendo uno strumento materiale, ma un essere libero, pensante e parlante, può rimaner dubbio se egli esprima per avventura esattamente le parole dell’altro. Questo dubbio nel proposto caso è però molto tenue perché la presenza del vero interlocutore che ben ode ciò che in suo nome si dice e non renuisce ma anzi mostra col fatto e con cenni di valersi di quello strumento rassicura abbastanza. Il dubbio si farebbe più grave nel secondo caso in cui il difetto sia per parte di chi dovrebbe udire ma essendo duro d’orecchio a ciò non vale ed è ajutato da un amico dotato di migliore orecchio. Questi allora fa la funzione di interprete a meno che il parlante non sia in grado di intendere se bene o male egli eseguisca la ripetizione.

§ 8. La parola è l’espressione delle idee dell’uomo fatta per mezzo di suoni articolati la cui congiunzione forma altrettanti aggregati i quali diconsi appunto parole e che giunti alla percezione intellettiva di un altro uomo consapevole delle idee che in lui vuole trasfondere l’altro, e le parole dovendosi considerare non nell’atto materiale di chi parla, e non nella sensazione corporea di chi ascolta, ma nella sua percezione intellettiva, è comunicazione verbale quella che tra persone presenti produce questa percezione.

Se non che la parola è fugace, la parola proferita non vince distanze né di tempo né di luogo. È vero che la parola ascoltata può riferirsi, e quindi trasferirsi in altrui per mezzo di chi avendola ascoltata la riporti, ma questo intervento di un terzo indebolisce l’efficacia della parola perché lascia luogo a dubbi: questo che mi parla in nome altrui, questo nuncio o messaggero è un testimonio del detto altrui: sarà egli veritiero? avrà egli bene inteso? E qui di passaggio noterò le differenze tra il nuncio e il mandatario. Quegli è un semplice testimonio, questi è un rappresentante: quegli se riporta male la proposta, la risposta che è coerente ad una proposta mal riferita non istringe consenso, e il danno è tutto del rispondente che reputa di aver contrattato e non contrattò. Al contrario se il mandatario erra, egli può obbligare il suo mandante e il danno dell’errore (purchè entro i confini del mandato) va tutto a carico del proponente. Questa distinzione è importante assai nella materia dei contratti e specialmente nella giurisprudenza telegrafica.

§ 9. Se pertanto il nuncio può errare, nascerà diffidenza di questo mezzo di comunicare la parola, e si vorrà avere un mezzo più sicuro. Quale sarà esso? Se chi parla potesse fermare il suono, configgerlo, per così dire, rinserrarlo in un otre, e mandarlo a chi deve raccogliere la parola, tutto sarebbe fatto salvo tutt’ al più che non nascesse dubbio sulla provenienza e identità di quella voce. Ma ciò è fisicamente impossibile. Non è però impossibile far si che il suono delle parole risuoni all’orecchio di persone distantissime quando si ottenga di far lui stesso nuncio delle parole altrui. Poniamo che quegli che parla faccia certi segni sopra uno strumento materiale, i quali veduti dall’altro a cui si dirige la parola facciano si che questi la proferisca come nuncio del mittente a se stesso che la riceve e raccoglie; che egli dica a se stesso: “Tizio dice: io desidero il tuo cavallo”. Non è la stessa cosa come se Tizio proferisse egli medesimo quelle parole all’orecchio di Sempronio? E se Sempronio dice alla sua volta : “ed io rispondo di sì”, non vi è consenso? Si, il consenso vi è se Tizio in realtà ha fatto Sempronio suo nuncio, vale a dire se quei segni materiali che Tizio trasmise a Sempronio sono veramente vergati da Tizio, e Tizio ha perseverato nel suo sentimento sicchè oltre all’identità della cosa vi sia simultaneità di volere: con-senso.

Se dunque si trovi un modo di trasmettere tali segni che facciano l’assente nuncio a se stesso delle altrui parole e quindi dell’altrui pensiero, sarà soddisfatto al bisogno di superare l’ostacolo dello spazio, né altro rimarrà a desiderare se non la certezza che quei segni provengono dalla persona cui appariscono appartenere.

§ 10. Questo bisogno soddisfatto, ne ha già soddisfatto anche un altro, quello vogliam dire del tempo. Con questo mezzo si può dunque parlare anche a chi non è pronto a ricevere la parola, a chi non esiste ancora, si può parlare a chi non si conosce, si può parlare a tutto il mondo.

Siffatto mezzo configge le parole e il pensiero, lo rende duraturo e indefinitamente trasmissibile: questo mezzo chiamasi scrittura, e poiché non può parlare all’udito direttamente, bisognerà che si percepisca prima cogli occhi o col tatto. Anzi per la lentezza e tardità di questo senso, e per la sua ottusità bisognerà che si rivolga al senso più celere d’ogni altro, alla vista.

Ora in qual maniera si rivolgerà esso alla vista umana? Quale sensazione o quale percezione tenderà esso ad eccitare? Fermiamoci su questo punto della nostra via il quale ci pone innanzi un bivio non meno importante di quello di Alcide. L’uomo che vuole trasmettere i propri pensieri ad altro uomo distante o per tempo o per luogo non opererà diversamente da chi vuole esprimersi all’altro presente e vicino. Egli adoprerà i simboli o le parole, vale a dire presenterà o l’immagine dell’oggetto o l’espressione del suono. La scelta dipenderà dalla qualità delle persone. Se chi vuol trasmettere l’idea parla un linguaggio che possa essere inteso dall’altro a cui lo trasmette egli presente adoprerà le parole; assente presenterà all’altro indubitati segni pei quali chi riceve la parola scritta la pronunzi a se stesso. La quale osservazione non è già un sogno ipotetico ma una realtà di cui può convincersi chiunque conosce persone poco esperte di leggere. Egli vedrà sempre pronunciare a voce più o meno elevata le parole che leggono. È solamente l’effetto di lungo esercizio il rilevare le parole scritte, il leggere per memoria. Una persona rozza ed una letterata leggono lo stesso libro di preghiera: questi scorre coll’occhio quanto quegli pronuncia con quel pissipissi che affettatamente adoperano le pinzocchere.

Ma se chi vuole esprimere le sue idee non sa parlare un linguaggio inteso da chi le riceve egli cercherà di esprimerle con simboli i quali destino immagini perché il ricevente ne ricavi l’idea.

§ 11. Due modi sono dunque di scrittura: la simbolica e la fonetica. Quella ristrettissima, questa tanto estesa quanto il linguaggio: tutte le parole che si possono pronunciare si possono anche scrivere. La scrittura simbolica era quella che i sacerdoti Egizj adoperavano ne’ monumenti, e chiamasi anche geroglifica; ma quella indirizzavasi al popolo rozzo, mentre pei dotti essi adoperavano la scrittura fonetica la quale non esprime le immagini, si bene le parole. Immensa distanza separa queste due scritture, ed è un vero errore il supporre maggior perfezione nello esprimere, come alcuni dicono, a dirittura l’idea. Ben lungi da ciò, la scrittura simbolica non esprime idee ma immagini, le quali per congettura possono bensì esprimere l’idea, ma limitate nel numero e più o meno remote dall’idea medesima interna infinitamente al di sotto del bisogno mentre infinito è il numero delle parole, e più indefinito quello delle frasi che esprimono un pensiero e dei periodi che accoppiano le frasi. Non vi è lingua sì povera che non sia le mille e mille volte più ricca di qualunque scrittura simbolica del che ognuno può agevolmente persuadersi confrontando la estensione e profondità del linguaggio parlato con quella della pantomima. Sarà poi apertissimo a chi consideri l’inferiorità intellettuale dei popoli ch’ebbero la scrittura simbolica rispetto a quelli ch’ebbero e hanno la fonetica. Ometto di parlare della tardità di quella che rimane aperta ad intendersi ove si consideri qual tempo vogliasi a disegnare od a scolpire un oggetto materiale e quanto poco a vergar segni consentiti dei suoni come sono le lettere: e nessuno ch’abbia fior di senno vorrà paragonare alle belle e ricche nostre lingue europee od anche alle semitiche la lingua chinese ch’è pure il tipo più perfetto delle lingue a scrittura simbolica.

§ 12. Voglio sperare che mi sia qui perdonata una digressione. Ne’ miei studi trovai sempre numerose e indelebili le traccie delle tre razze derivanti dai tre noachidi, traccie che segnarono i loro costumi, la loro indole, le loro tradizioni, i loro istituti privati e pubblici, le loro tendenze, i loro stessi difetti. Il materialismo dei Camiti, come si manifestò nella loro tendenza ad ogni adorazione delle potenze materiali sino al più stupido feticismo, e nella forma crudelmente dispotica dei loro governi, si manifestò anche nella forma simbolica e materiale di loro scrittura; la compassata lentezza de’ Semiti nella imbarazzata scrittura da sinistra a destra, e la mobilità Giapetica nella più rapida da destra a sinistra e nei nessi. Ed io ritengo col Balbo la provenienza Camitica de’ Chinesi mosso anche dall’argomento della scrittura e dalla lingua monosillabica la quale appunto accenna a parole di cui ciascuna esprime una innovazione o se pur vuolsi per illazione un’idea, mentre le altre lingue modificarono i loro radicali monosillabi per esprimere con parole polisillabi l’immensa copia e variazione delle idee.

§ 13. Ma ritorniamo a bomba. Come tra gli uomini aventi una lingua comune con cui intendersi, i gesti mimici sono ristretti al ben tenue ufficio di accompagnare le parole e di esprimere in compendio alcuni moti dell’animo, così la scrittura simbolica fu relegata o ad esprimere immagini rappresentative di una idea determinata ed intesa o facilmente intelligibile, come tutti i simboli od emblemi delle città o genti, o una idea che si voleva tenere occulta a chi non avesse la convenuta intelligenza del simbolo. Tali erano que’ simboli di cui facevano uso i primi cristiani al tempo del paganesimo. A questa specie appartengono ancora i segnali che fino ab antico servivano quasi di telegrafo per far sapere l’accostarsi del nemico, o di ajuti, o le bandiere e fanali di avviso sul mare, e le bandiere bianche o nere in una fortezza o in un campo, ed i fari o fanali di porti, e simili, i quali servono ancora per esprimere a molta distanza un’idea semplicissima e preintesa ed esprimerla col mezzo di una immagine materiale.

All’opposto tutti quei mezzi pei quali non si esprime direttamente una immagine od una idea, ma le parole, siccome sono destinati a conservare le traccie di suoni articolati e a farli riprodurre, appartengono alla scrittura fonetica, o, per meglio dire, al logos, al verbo, al sermone, al linguaggio.

§ 14. Si osservi intanto che l’uso del linguaggio o della scrittura fonetica che lo esprime presuppone la reciproca intelligenza tra chi parla e chi ascolta. Si può (dicono le LL. 1 de V.O e 8. de acceptilat.) stipulare anche in diverse lingue purché scambievolmente intese o purché siavi tra mezzo un interprete. Ad ogni modo la scrittura simbolica può valere entro certi limiti anche tra chi non intenda la stessa lingua, ma la fonetica non può valere se non tra chi intende scambievolmente il sermone isteso o parlato o scritto (Quindi lo errore di quelli che sognano trovare una lingua comune scritta che possa servire alle comunicazioni di diversi popoli, errore che fu egregiamente combattuto dal mio collega Cav. Mauro Sabbatici, in una dotta memoria letta all’Accademia delle scienze di Modena. Essa può servire anche a confutazione di chi sognasse una telegrafia universale).

§ 15. Tutti gli accennati mezzi che servono a manifestare ad altri i nostri pensieri si possono ridurre a queste due categorie:

 

Espressioni simboliche

Espressioni fonetiche

Mimica o cenni

Discorso

Suoni inarticolati

Dattilologia

Emblemi, segnali

Scrittura fonetica

Scrittura simbolica

Telegrafo fonetico

tanto a braccia

quanto elettromagnetico

Tessere o tacche

Telegrafo simbolico

 

 

II

 

§ 16. Alcune scritture sono transitorie e più o meno fugaci, come quella sulla lavagna, o su tavole di legno colorate o cerate, ecc. Queste sono destinate più veramente a tener luogo della parola parlata, e perciò non entrano logicamente nella scrittura, ed i contratti fatti per tal modo con immediata cancellazione si debbono avere per verbali al pari di quelli coll’uso della dattilologia. All’opposto le scritture tracciate su materia durevole, sia scolpite in pietra, sia incise sul bronzo, sia scritte sul muro, sopra papiro, pergamene ecc., siccome destinate a conservare l’espressione della parola per uso distante di tempo e di luogo sono vere scritture, i contratti fatti con esse diconsi scritti. Il telegrafo a braccia appartiene alla scrittura fugace, il telegrafo elettrico alla scrittura permanente.

§ 17. Torna qui opportuna l’osservazione sulle trasmissioni dirette e indirette. È diretta quella di chi parla, come pure di chi scrive di propria mano, e di propria mano comunica lo scritto; quasi diretta quella di chi invia l’autografo, e dissi quasi diretta, perché lascia luogo a falsificazione. È indiretta la trasmissione che si fa per nuncio, o per copia, o per interprete; e questa interpretazione è di due specie, quella cioè che si fa sulla sostanza medesima dell’atto, e quella che si fa sui caratteri. È della prima specie quella che si fa traducendo da lingua a lingua, da scrittura simbolica a scrittura comune, come pure quella dei sensali o de’ notaj che spiegano la volontà de’ contraenti; è della seconda specie quella che cade solamente sui segni dai quali sono espresse le lettere componenti le parole. Alla prima specie di interpreti appartengono i dragomanni od altri ufficiali detti per antonomasia interpreti; alla seconda appartengono gli esperti della dattilologia de’ sordomuti, i paleografi, i deciferatori, i telegrafisti.

La vera copia che si fa trasportando le parole da scrittura in lingua comune e in caratteri comuni, senza cangiar lingua e ripetendo pur sempre gli stessi comuni caratteri, non può di regola risguardarsi come interpretazione; il copista adunque non è che un testimonio, mentre l’interprete è un perito. Lo stampatore, il litografo, il fotografo sono copiatori.

E il telegrafista? Distinguiamo: sono interpreti quelli che mettono in caratteri telegrafici quanto ricevono in caratteri comuni, così pure quelli che traducono in carattere comune i segni telegrafici; sono invece copiatori gli intermedii che ripetono i segnali veduti, trasmettendoli ad altro telegrafista.

Tutte queste trasmissioni indirette, le quali formano la massa più forte delle trasmissioni, vanno più o meno incontro a questi dubbi. Il mittente era egli in realtà quel desso che la missiva indica? Colui che trasmise, operò esso rettamente sia nell’aspetto intellettuale e sì nel morale? oppure avrà egli tanta intelligenza e tanta probità nelle sue operazioni da non poter dubitare della sua esattezza e della sua veracità? La fiducia privata non ha altro limite che la volontà, ma la fiducia pubblica e la stessa fiducia privata quando è posta a contatto con la pubblica ha certe norme e perciò non basta la generale presunzione che l’uomo sia onesto: anche l’uomo onesto è talvolta ignorante, distratto, disattento: l’uomo d’altronde ad ottener pubblica fiducia è obbligato a dar prove più positive della propria onestà in relazione all’ufficio che disimpegna. Non basta l’onestà grossolana, vuolsi l’uomo che sente il proprio dovere speciale, e gli obblighi pure speciale che quello gli impone. Non tutti possono essere investiti di quella se convenienti studi ed esperienza ed onestà comprovata non ispirano una fiducia singolare. Allora il nuncio, il trascrivente, l’interprete acquista la fede di officiale pubblico, e questo forma un grado di testimonianza qualificata che ottiene credenza assai più che la semplice, perché essa è appoggiata a prove positive che rendono se non certo almeno probabilissimo il sapere e volere operar bene. (Il giuramento non è necessario perché non è sostanziale a dar fede, come ben spiega l’Ellero nella Critica criminale). Non bisogna però confondere questi pubblici ufficiali e gli atti da loro fatti con quelli che si chiamano autentici. In questi avvi di più assai. L’opera del pubblico ufficiale è tale che questi non possa essere tratto in errore. La sua testimonianza è di fatto e non mista di giudizio intellettuale: essa è circondata di molte cautele dalla legge per accertarsene. Ivi il notajo o pubblico ufficiale non opera; egli attesta. Diverso, come ognun vede, è il telegrafista. Esso si ritiene nella sfera dei pubblici ufficiali cui assiste una presunzione legale di capacità e di onestà. Se dunque otterrassi che il perfezionamento del telegrafo porti tanto che ognuno vergando le sue parole queste vengano dalla macchina telegrafica tracciate in altro luogo, si avrebbe la trasmissione diretta, e questa può anche aversi da telegrafista a telegrafista.

La trasmissione indiretta diminuisce di fiducia a misura che si allontana dalla diretta, perché s’aumentano i pericoli d’errore e d’infedeltà, e il grandissimo bisogno che se ne ha deve inspirare maggiori industrie per allontanarsi, come il grandissimo bisogno di notai dopo l’italico risorgimento suggerì quelle discipline per le quali a tanto di perfezione giunse in Italia l’arte notarile. E Dio voglia che si avvii a tanto che ottenga il telegrafo tanta fede quanta ne ottiene l’atto autentico, finché almeno non è sparita sotto la scure dei forestierumi ogni reliquia dell’italica sapienza.

§ 18. Fralle trasmissioni indirette annoverammo la stampa, la litografia e la fotografia. La stampa infatti è una copia, ma questa copia non ha carattere alcuno di autenticità, poiché essa non tiene alcuna relazione coll’autografo. Ella forse è presa da una copia qualsiasi: e frattanto ella diffonde il nome dell’autore per tutto il mondo, e i suoi pensieri e quelli che gli vengono attribuiti. Pericolosissimo strumento se per grande ventura non fossero immensamente minori gli inconvenienti di quello che a ragione si potrebbe temere. Eppure niuno dubita che appartenga all’autore un’opera pubblicata sotto il suo nome: la ragione evidente di ciò è che, facile essendo lo smentire la paternità dello scritto, il silenzio e lo ammettere lodi e biasimi equivale al riconoscimento.

Quanto dissi della stampa vale per la litografi, la quale è un modo di moltiplicazione non dissimile moralmente e giuridicamente. La fotografia invece si accosta più al vero, ed un manoscritto estratto a fotografia per facsimile può presentare molti caratteri dell’autografia. I calligrafi possono su quello operare un confronto.

§ 19. Scorsa così l’indole intima delle manifestazioni dell’umano pensiero in rapporto specialmente alla loro morale efficacia, restami a dire poche cose intorno all’uso filologico del telegrafo.

Allorché la materia o il mezzo di scrivere si rendano molto costosi, o manchi il tempo o il modo, fa d’uopo cercare ogni industria per esprimersi nel più breve tempo e nel minor spazio possibile. Nacquero così le note o abbreviazioni, le abbreviature dei notai nel medio evo, il breve stile e le clausole ceterate che molti ora deridono e che sapienti erano allora perché avevano certo riferimento a formulari. Poche linee tenevano luogo di molte pagine come anche in oggi la brevissima lettera di cambio tiene luogo di un esteso chirografo. La lingua latina si prestava perché concisa e senza tante particelle, ed è perciò che non v’ha ragione di averla messa al bando dagli uffici telegrafici. Non potrà mettere in dubbio nessuno che la maggiore concisione non sia necessaria nei telegrammi, e l’uso infatti introdusse di omettere gli articoli. La qual cosa, perché non vi si pone arte, pare più facile assai che non sia. Non basta infatti quella soppressione che rende spesso inintelligibili od equivoci i telegrammi. Bisogna mettere l’arte in luogo di una rozza prassi, e studiare uno stile laconico, senza che perda di chiarezza e di precisione. È ben vero che potrebbe adottarsi una punteggiatura la quale tenesse luogo degli articoli, e rendesse facile l’opera del telegrafista destinatario, il quale, ove debba fare l’ufficio di indovino, come pur troppo accade, corre il pericolo di non indovinare l’intenzione dello scrivente. (Il telegrafista infatti non deve essere un interprete della sostanza, sebbene del carattere, ei deve cioè tradurre in caratteri telegrafici i comuni e viceversa; addossandogli incarico più grave si moltiplicano le fonti di errori e si scema la fiducia in questo utile mezzo di trasmissione). Ma quando pur si riesca a trasmettere i dispacci completi cogli articoli, è sempre necessario adoperare un linguaggio brevissimo ed energico che si accosti allo stile epigrafico, ristretto esso pure ad angusti confini. Sarebbe quindi opportuno che si insegnasse l’arte di stringere le molte parole in poca e succosa sostanza: si eviterebbero con essa le prolisse e confuse scritture, e si avrebbe grande risparmio di spesa e di tempo. La brevità non esclude la chiarezza se non quando è priva d’arte, né esclude una sobria eleganza: le fronde non sono fatte per l’epigrafia né pei telegrafi.